In questo baillame non poteva che mancare un deus ex machina (che però, altra anomalia, è parte integrante del problema): l’intelligenza artificiale, o meglio la sua applicazione forzatamente presente ovunque e comunque all’uopo. Qualsivoglia design di successo è sempre stato quello che sa adattare la forma al contenuto (e non viceversa) per coniugare funzionalità ed estetica. Nessuno che si possa ritenere di buon senso (quand’anche non necessariamente parimenti di gusto) si lascerebbe attrarre da un'anfora cubica (anche se immagazzinabile con maggior successo); bensì da una a guisa di goccia, che del liquido è il primigenio elemento minimo immaginifico. Coerenza e rispondenza cui vengono sottratte largamente occasioni di manifestazione ad esempio nei contesti del Lavoro; così da preferire di fatto che le persone non vi impieghino le loro attitudini, abilità e competenze ma piuttosto che le pieghino alle richieste del Mercato, o in più ampia scala per quel che concerne un territorio a generare cultura ed economia secondo capacità che gli sono proprie. Nell'iper-mondo che tutto coniuga e declina prono alla categoria del mercato anche l'agenzia di formazione per antonomasia (da quel mondo molto appetita) non sfugge all'inesorabile avanzare della deminutio in corso d’opera, che spazia dalla soddisfazione del cliente nella categoria dell'azienda, al menù à la carte in quella del ristorante. Né è aliena, essendole complementare, al cupio dissolvi dell'omologazione, lubido maxuma del nostro tempo. Così per sviluppare ed incentivare il pensiero critico, questa la motivazione mediatica, s'impone di progettare per ogni area del Sapere “curvature” da adattare all'i.a. Senza distinzione di sorta, in un sistema incardinato sempre più sul metodo che sui contenuti, dove il binomio gettonato attività/competenze ha scalzato quello indefesso pensiero/educazione dal e al Bello (i più accreditati a garantire neutralità di giudizio e capacità critica). Per cui si porta a credere che esatto corrisponda a vero, che la rete corrisponda alla realtà (l’i.a. infatti elabora attingendo unicamente dalla prima), che sia più importante che una persona si preoccupi di ciò che può fare con un software piuttosto di preoccuparsi di ciò che quel software può fare di lei; che l'attenzione alla persona sia sinonimo di personalizzazione. Nel deficit culturale che ne consegue, chissà che l’onomatopea dello iato proverbiale diverrà quella geneticamente modificata di animali da soma addestrati, culturalmente depressi/deprimenti, parlanti all’unisono di “ ia-ia”? Credo poi (leggasi ne sono convinto, e sempre di più) che il punto non consista nel sapere sempre più di Matematica, Filosofia o più di una che dell'altra, bensì nel non farsi sfuggire l'occasione di rendersi conto del nesso tra le due e peraltro della sua attualità; tipica attitudine dei “classici” di considerare la conoscenza, con un quid olistico. Chi d'altronde potrebbe affermare, scientemente, che il dramma di Medea o il piglio risoluto di Lisistrata non siano quelle di persone viventi oggi? Quindi a che serve coltivare l’Arte, cosa ha a che fare con tutto ciò? Scriveva Marziale che ciò che abita dappertutto non abita in nessun posto. Non è “fit for purpose”, non serve a nulla perché a nulla è asservito, a niente di specifico perché molto giova a molto. Semplicemente e fondatamente è, lo sguardo sul Mondo. Questo lo sguardo che rende veramente liberi, non un’emancipazione che non fa altro che far assumere al soggetto che si emancipa le schiavitù proprie dell’oggetto da cui si è emancipato. Nessuno metterebbe in dubbio che nascere, vivere, morire sono caratteristiche della persona e quindi non necessariamente prerogativa di un culto particolare; ed è tanto vero se vi si pone il prefisso ri- e le si considera non necessariamente in questa sequenza. Un messaggio scandaloso però quello che parla di un passaggio dalla “morte” alla “vita”, oggi che più che mai si è ossessionati da quello dalla vita alla morte. Forse non perché si sia fedelmente dubbiosi quanto piuttosto poiché agnosticamente convinti. Questo messaggio sa ancora parlare al tempo in cui si crede che magari non proprio qualsiasi cosa sia ma in fondo un po’ tutto possa essere arte; in cui l’eterno è scalzato dall’evento, l’occasione di contemplazione viene rimpiazzata da quella di spettacolo, e non sia mai che i suoi spettatori non possano esserne divertiti (nell’accezione ludica del termine). Al tempo del divertimentificio globale delle aperi-cene vengono erette fabbriche del senso per raccogliere consenso, la spiritualità è dileggiata dallo spiritualismo scevro di trascendenza. Oranti poco elitari e molto democratici (più che altro in quanto a dichiarazioni), i fedeli di queste nuove cattedrali, professando un moralismo pauperistico (apoditticamente in contrasto col packaging lussuoso dei loro luoghi di culto), si affollano prodighi intorno al grande bluff del Contemporaneo che spesso riserva loro dietro l’angolo la mal celata “merda d’artista” che non mancano d’osannare con deferenza, il cui taglio sociologico e politico è funzionale alla nobilitazione di una nouvelle richesse affamata di cultura da saloni e salotti. Ma il nome di questi templi è quasi sempre affetto dal provincialismo munifico di acronimi, dal MAXXI al MACRO, al MART e al MAMBO, generati dalle pastoie delle commissioni urbanistiche, volano di oculati investimenti commerciali travestiti da operazioni culturali. Ora che più che mai si vuole con la vista toccare e che si tende a considerare vero tutto ciò che è reale (raramente viceversa), confondendo peraltro il primo col secondo. Quella sì opera d’Arte, parla a chi con la vista vuole guardare di uno scandalo che vede la ragione che misura dormire e quella che non ha misura vegliare oltre la mira di un orizzonte stravolto da qualcosa che gli è trascendente. Si fonda su un bene prezioso da non gettar via; qualcosa che altrimenti, ritrovaticene poveri una volta superato l’orizzonte degli eventi, non saremmo in grado di riacquistare. Una relazione insospettabile quella per cui la mancanza di coscienza, o in preda alla narcosi collettiva, limita l’immaginazione. Scriveva Orazio “ut pictura poesis”, la Pittura è come la Poesia. Questo corrisponde ai due modi di guardare o di leggere: lo sguardo da vicino rivela l’artificio, quello da lontano l’Arte. Le ideologie sono crollate, la Filosofia si dimostra ignorata e quindi non efficace per chi non l’ascolta ad orientare l’esistenza. Trionfano invece la dimensione fanatica/di massa delle religioni e le mode spiritualistiche, peculiare trend che connota le civiltà in decadenza. Si avverte la necessità di uno sguardo provvido, avido di trasparenza (ben diversa da quella che per esempio informa il rituale dell’“open day”), quello sguardo da lontano per colmare il vuoto di etica e di scienza del buon vivere per scolpire in sé i valori dell’eleganza d’animo e delle affinità elettive. La percezione di trucchi e trabocchetti nel reale e dell’extra-ordinario nell’immaginifico, quella di ciò che distrugge e ciò che costruisce, contrariamente a quanto sembrerebbe logico, passa per un impervio cammino diverso da quello razionale della dialettica e dell’universo basso-materiale della cultura bensì attiene a quello alto-simbolico, grazie al quale si accede per anguste porte ad un piano ontologico elevato: l'intuizione, categoria mentale della conoscenza, essenza del fatto estetico. L’intuizione che rifugge la regola. Coltivare beni che possono arricchire e difendere anziché arricchirsi di beni da difendere che possono inaridire. Colpiscono, questi due enunciati. Giovanni evangelista: “... io sono nel Padre e il Padre è in me ...”; Heidegger“... niente è se stesso e tutti sono gli uni tra gli altri ...”. Due moti: per il primo l’esistenza è ricca nell’interiorità, l’intimità è il modo d’essere del celeste; per il secondo l’esistenza si dissolve nell’esteriorità, un’anima conformata al terrestre. All’essere umano l’Arte fa un dono unico: permettergli di accedere, ogni volta che le sia a tu per tu, alla propria dimensione pristina. L’Arte è infatti “architettonica” perché produttrice dell’origine, lo spazio originario dell’uomo. È la storia di un’avventura in cui la ricerca dell’origine porta a scoprire che il vero principio del guardare al mondo è la meraviglia. Un principio per cui s’intuisce la differenza tra le verità semplici, in cui gli opposti sono tra loro assurdi, e quelle profonde, in cui ogni opposto è una verità. Chi s’interroga e prova stupore scopre d’essere ignorante; così, paradossalmente da filosofo, viene attratto dal mito perché questo è fatto di cose che destano meraviglia. Questo il meccanismo che desta l’amore di sapienza, più che conoscenza; ed è sempre stato lo stesso. Dati alla luce, nasciamo da un uovo (forma archetipica frequentatissima dalle espressioni artistiche, da Leonardo a Dalì, dall’Artemide di Efeso a Piero della Francesca, dall’architettura ionica all’Eden project), da un interno passiamo ad un esterno. E già ci si accorge che uscendo all’esterno si sta già entrando nel grande mondo. Non proprietari indipendenti ma tutti inquilini in mutua dipendenza. Chi si considera proprietario di una vita non può che considerare la vita, e qualsiasi vita, come una proprietà. Qualcosa quindi di cui sbarazzarsi nel caso questa costituisca un imbarazzo per chi detiene quel diritto di proprietà. Nel grande mondo: un altro uovo, un grande uovo, un altro interno; dettagli in un quadro, spettatori in uno spettacolo. Resta da portare all’origine allo sguardo di ognuno i “dati”, che sono stati organizzati in strutture per essere adatti a finalità; dati alla luce. E, come nel caso della Fotografia, possibilmente farlo con l’arte di lasciar perdere il dettaglio, senza lasciarsi intrappolare da quella di perdersi nel dettaglio. … Tanto più ci si avvicina ad una scultura più la si può toccare, la si conosce secondo il reale; quanto più ce ne si allontana più la si può guardare, la si conosce secondo il vero.