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… E dato è quello per cui tanto più ci si avvicina ad una scultura, più la si può toccare; quanto più ce ne si allontana, più la si può guardare.

La Fotografia in effetti permette in un solo atto quel che separatamente è concesso a Pittura (che rappresenta lo spazio sulla superficie), Scultura (che plasma superfici nello spazio), Architettura (che utilizza un vuoto per creare spazi con le superfici). Una camera obscura che aggiunge, riunendo via via nella sequenza delle arti figurative (includendovi anche il disegno che, da strumento della memoria selettiva che registra l’osservazione, attraverso il segno rende possibile la visione di ciò che altrimenti sarebbe invisibile), dimensioni alla sfera del sensibile, all’endiadi spazio-superficie; perché dal raffigurare cose che si vedono si passa al cercare quelle che non si “vedono”, dandone una rappresentazione. Disegnare, progettare, fotografare, in sintesi immaginare, altro non sono in fondo che varie manifestazioni per restituire un’immagine del mondo; sia che s’intenda darne testimonianza, sia che ci si proponga di vestirlo dell’abito desiderato, o che si voglia dare un’interpretazione del dato di realtà. Dunque la mano e l’occhio, proprio come accade col disegno, diventano un solo mezzo e l’immagine acquista tangibilità, diventa l’unica risposta che il desiderio di qualcosa dà all’assenza di quel qualcosa. L’aspetto illuminante/edificante delle riflessioni, quand’anche in veste di zibaldone, è quello per cui quasi mai queste portano a soluzioni perentorie, ma sovvertono i punti di vista, ne creano di nuovi, per diradare eventuali premesse divisive delineano prospettive, quelle che indicano le vie per arrivare a risposte ponderate e, va da sé, ad ulteriori domande; quasi sempre. Ancestrale termine di paragone biunivoco tra uomo e divinità, l’Immagine, che sia scrittura o disegno, da icona o da idolo, esprima un progetto o un dipinto, scultura, fotografia o componga una rappresentazione in movimento, sia essa bi/tridimensionale, analogica o digitale, riveste un ruolo chiave nell’attualità fortemente vocata all’informazione (organizzata), ri-produzione, alla comunicazione (narrazione che, scopo di ogni arte, da sempre è stata una via per indagare la complessità di ogni società) ed alla “guerra cognitiva” (per cui vengono spesi capitali). Segnatamente, dalle Giganto-Centauro-Amazzonomachie del Partenone, alle parabole dell’”Euangelion”, i pellegrini dei “Canterbury tales” sino al digital storytelling contemporaneo: fenomenologia delle “visual stories”, talché vivere si traduce in “creare la propria storia” per farlo sapere; per varie ragioni, dalla semplice affermazione di un’identità non riconosciuta al narcisismo, ai fini secondi. Proprio uno schermo, declinato nei vari sizes, ci ha fatto sognare da grande, da piccolo comprare e consumare ciò che poteva soddisfare il nostro fisico, dall’anticamera alla più segreta stanza spalancare le recondite porte dell’intelletto da palmare. Divenendo nella sequenza sempre più accessibile a tutti; ai “pifferai magici” pure. Usate un tempo per descrivere l’irrealtà ed ora per raccontare la realtà, anche in ambiti non artistico-creativi, la coniugazione di quelle storie non di rado utilizza la liturgia dello spettacolo-evento, che oggi con enfasi stentorea alza la voce per legittimarsi nella (in)civiltà dei big data, e nel coacervo in cui spesso sotto il tetto dell’Arte albergano in gran parata il consumismo glocal, il folk revival, l’infotainment ed ogni materia che ne ibridi la natura. Tant’è che gli argomenti dell’Arte, contesti accademici a parte, vengono ormai per lo più percepiti ed appresi se principalmente come pretesto di svago e divertimento (unicamente nell’accezione ludica), invece che come occasione per sviluppare il pensiero critico, alternativo/laterale e l’immaginazione. Ma d’altronde quando a dominare è l’immediatezza anche la cultura finisce per essere declinata giocoforza col paradigma dell’evento. Per cui il proliferare dei vari guru, del modello del talent, del training, del ricorso in qualsiasi occorrenza all’advisory per fugare il timore della (brutta) sorpresa (delusione dietro l’angolo che a volerla evitare a tutti i costi spesso è invece quasi certa); come il prolificare persino degli immancabili concerti nelle occasioni di manifestazioni per battaglie d’impegno civile, e così via. Non ultimo dei proteiformi obiettivi delle “agende”, delle “giornate mondiali”, chiaro sintomo della pochezza di una volontà collettiva prona a riscuotere consenso che mira ad elaborare progetti a breve scadenza, simboli domestici (come la sterilità espressiva dell’arte contemporanea, tanto ricca d’identità quanto anonima) che inducano a rivolgere lo sguardo verso il basso; l’antitesi dell’elaborazione creativa e mitopoietica, la fine degli universali. Immediatezza che tra l’altro, spesso in simbiosi con la precarietà presente/del Presente, innesca un moto che quasi scagiona l’essere umano dal dolo d’essere homini lupus. Probabilmente l’uomo che sul finire del diciottesimo secolo scrisse del suo “Viaggio in Italia”, azzardando tra l’altro l’ipotesi che il mondo sarebbe diventato un grande ospedale (e potremmo tranquillamente dire che di profezia si trattò), oggi non si stupirebbe più di tanto della trasformazione della natura dell’oggetto della sua ammirazione visitando il Bel Paese. Verrebbe da pensare che le espressioni dell’Arte rivelino la cultura della società in cui si manifestano. Ci fu la struttura della filosofia scolastica; era il Gotico. C’è stata la tessitura della teatralità del principio delle monadi; era il Barocco. C’è la tappezzeria del teatro del consumo; è oggi.

Diversi tratti sono condivisi dalla nostra con quell’epoca, anche se là si può parlare di molteplicità nell’unità (la teoria delle monadi di Leibniz appunto, che traspare persino dalle architetture delle cupole borrominiane nel gioco racchiuso tra imposta e chiave della cupola) mentre qua di molteplicità nella frammentarietà, nella riproducibilità frattale. Una forma iperbolica sensista e sensazionalista, come fosse una dottrina gnoseologica, della narrazione barocca in cui il punto di vista diventa soggetto e la descrizione l’oggetto. D’altronde questo prova lo stato di inappagamento diffuso in cui versa la società contemporanea, sussiegosa di matrimoni fluidi ed ossequiosa ai solidi patrimoni; l’insoddisfazione crea desiderio, il desiderio appare bisogno che per converso crea consumo. Tornando al consumare, ”iper” è la sua dimensione, per cui teorie di raffinati prodotti da laboratorio del “gusto”, ascrivibile questo a ciascuno dei cinque sensi, vengono consumati in batteria in anonimi contenitori di persone osannanti l’arbiter elegantiae di turno che battezza “bellezza” il semplice decoro o l’innocua bizzarria. D'altronde non credo proprio siano in molti (almeno tra coloro i quali vogliano porsi qualche domanda) a trovare un gusto in molto di quel che saggiano, anche a volerlo comprare con gusto. Le cose di gusto costano molto, non sono però quelle più costose ma quelle che costano meno alla migliore qualità. Quando non era così diffusa la frenesia del controllo di qualità (che ha omologato il gusto e partorito il finto artigianale/made in), solo in apparenza un paradosso, la qualità era più diffusa. Tutto questo è assolutamente coerente perché progettato a giustificare lo sperequato prezzo del prodotto "di qualità" che prima, essendo più diffuso, aveva un minor costo e conseguentemente un minor prezzo (essendo anche più lineare la relazione tra costo e prezzo). Ecco che ove si chiudano librerie là aprono i loro battenti spazi in cui si consuma cibo possibilmente “slow”, con la velleità di portare valore aggiunto a riscatto della sottrazione di un luogo deputato alla divulgazione della cultura; c’è infatti chi pensa che – e non sono in pochi ad esserne convinti, pur facendo assurgere l’atto dell’acquistare ad “esperienza” – l’acquisto on-line possa pacificamente sostituirsi alla professionalità di un libraio (per restare nell’esempio), o surrogare anche solo l’avventurarsi nella platonica “caverna” della conoscenza, colorata di copertine e di avventori. Più propriamente l’esperienza sarebbe un modo di conoscere, che fu esclusiva della Scienza ed ora sembrerebbe propria pure dell’Arte. Alla forma quindi della cultura si è disposto il format commerciale del “supermarket” ed eccezionale dell’”evento”, secondo cui si fa sapere quel che poi non si fa e si fa quel che prima non si è fatto sapere. È questo un costume che trasversalmente si ritrova applicato in diversi ambiti, per cui ciò che riguarda il settore dei servizi viene interpretato in chiave aziendale (i beni offerti da un servizio pubblico per esempio; un’azienda invece offre un bene che soddisfi la domanda secondo un’ottica puramente utilitaristica), come quello dei prodotti trasposto in quella dell’iper-mercato (cui è legata la frenesia dell’home delivery e le aberrazioni di una concezione del lavoro che tiene sempre meno in conto la sua natura, oltre che produttiva, sociale). Fondamentalmente ciò che prima era proposto per venire apprezzato e coltivato, ora viene esposto per essere comprato e consumato. Si pensi a “The Cloisters” negli Stati Uniti. Esempio per cui da una parte si ha un soggetto che in mancanza di danaro o nel disinteresse ad impiegarlo per la tutela di un patrimonio, lo alloca nel territorio di un soggetto che in mancanza della Storia riguardante quel bene è appagato da tale acquisizione. Costituendone una doppia inautenticità: quella di chi cede ritrovandosi senza il bene (con l’impossibilità di ricavarne giovamento) che ha costituito la sua Storia, quella di chi acquista esibendo (ricavandone un profitto) un bene di una Storia di cui non è l’espressione. Dimenticando che non tutti i beni sono merci, ma sono tali per loro inestimabile gratuità. Non per nulla esiste un patrimonio materiale ed uno immateriale, entità che hanno valore nel sé, indipendentemente dalle logiche di credito/compenso. Ciò che non ha prezzo perché degno d’essere apprezzato. ... Educazione alla libertà, civismo. Invenzioni inautentiche (come ad esempio le pedonalizzazioni selvagge dei centri storici, e che dire anche dell’omologazione dei “p.a.t.” quali prodotti agro-alimentari tradizionali, le cui fasi di lavorazione e conservazione risultano praticate e consolidate secondo regole nel territorio di riferimento in maniera omogenea per non meno di 25 anni) nate dalla nostalgia di un mondo che viveva di autenticità si fanno strada quindi il “popolare”, che così rivisitato prende il posto dei vuoti lasciati dalla cultura di massa, ed un naturismo (monumento più che rispetto della Natura) ispirato alla retorica post-disaster di luoghi abbandonati.

Tra la cultura del ri-uso dei detriti come risorse e i rottami da salvare.

Complice l’ansietà spirituale endemizzata di un’epoca, quella della società del Presente-Futuro in cui fatti, rifatti, mutanti e stazzonati zombies dalla fissità di automi senza mimìa, chi più chi meno non certamente tutti ma altrettanto non pochi, attirati da carabattole, dalla paccottiglia di plastica e di malanimo presenti con una sconcertante tristezza nella mente, intesa come deprivazione. Si vive perché si è al mondo, o si vive perché si dà una forma alla vita? Pindaro sosteneva che Atena avesse istruito coloro che andarono a costituire la Scuola Rodia a creare statue che sembravano del tutto simili agli esseri viventi. “Nai zoón”, davvero viv(o)a, si legge a fianco di una figura di un vaso di Phintías. E ancora: kolossós, andriás, eikón, erano tra i principali vocaboli che rendevano il concetto di statua; tutti di genere animato. Nel tempo in cui non si era ancora perduto il desiderio di ricercare in quel che si realizza la contiguità del sacro, di un mistero prezioso, con la vita; e l’Arte ne era l’espressione, anche nella sua dimensione laica. Funzione o narrazione, definizione o significazione? Non occorre attendere il futuro per la risposta che il presente ha scelto di dare. Si arriva così alla banalizzazione dell’Arte, cui è corrisposta inevitabilmente la de-spiritualizzazione della propria materia. Così sono stati tolti via di mezzo il blu cobalto e il giallo Napoli (leggendario colore questo che insieme al rosso vermiglio ed al bianco d’argento faceva da base a tutti gli incarnati; ed è singolare come proprio questi soprattutto hanno subito in Fotografia, col salto a piè pari dalla pellicola al digitale, un sensibile degrado di qualità) in nome del “rispetto per l’ambiente”. Insieme assicuravano alle gradazioni del cielo all’orizzonte toni caldi e assenza di dominanti verdi formando il blu ceruleo. Ma chi lo raffigura più un cielo oggi, anzi chi lo guarda più e tanto meno può andarci in estasi? Leopardi diceva che il più solido piacere della vita è la vacuità delle illusioni. E proprio in quel tempo, quando tutte le grandi verità svanirono nell’enciclopedica ricostituzione del sapere universale, i pittori si cercarono e trovarono un nuovo appiglio: le nuvole. Il regno delle nuvole che già in età romantica aveva sostituito la classicità degli dei nel rappresentare un’idealità oltremondana. Lui che però accoglie quotidianamente ormai migliaia di ospiti saettanti che arricchiscono l’atmosfera di altrettante migliaia di tonnellate di carburante. Questo stesso “rispetto” ha fatto scomparire dalla scena della Fotografia una pellicola mitica dai colori non troppo naturalistici e per questo esteticamente ricchi di allure, la Kodachrome, rendendo visibile all’onestà intellettuale un rapporto tra tecnologia ed obsolescenza ipocritamente interpretato ad arte. Tutto sembra essere moda oggi, questa è il canale attraverso cui l’attualità si afferma. Perché più il paradigma del mercato segue il principio dell’obsolescenza programmata più, con la seduzione dell’innovazione, la smania di spendere anche oltre le possibilità viene accelerata. Dei, miti e memorabilia decaduti; grazie all’uso sperequato e la mancanza di senno: i veri responsabili della situazione che ha giustificato quel “rispetto”. Le alterazioni del mestiere e dei materiali dell’arte sembrano corrispondere alle degradazioni del gusto e della sfera spirituale, e dimostrano come i capo-lavori (le opere memorabili) siano firmati dalla compresenza di mestiere, mito e memoria. Una cinquantina d’anni fa il gigante blu restituì per caso al largo di Riace due statue, “severe” nello stile, inabissatesi alla memoria. Forse non sono loro il loro più grande nostro dono, tanto meno le etichette d’accademia di cui l'autore/gli autori non sapevano (come noi non sappiamo, e mai sapremo, ciò che l'autore/gli autori). Sarebbero state queste significanti e significative? Piuttosto l'aver suggerito cos'è in effetti l'immagine, e quindi anche la loro. Un attimo, che in questo caso durò una venticinquina di secoli, tra una sparizione ed un'apparizione. Altra forma di letteratura l’Immagine, il terreno fertile dove il pensiero cresce (e dove crescere un pensiero), sempre simbolica e rappresentativa, coscienza di un patrimonio, da opera creativa trasforma l’ambiente ed è fonte di identità sociale.

Al di là delle interpretazioni sociologiche, psicologiche, del fatto che di per sé l’Arte non esista ma esistono gli artisti, della pura traduzione dal Greco che identifica l’”arte” con la “tecnica” (e ci sono stati diversi tempi in cui questa fu largamente un’effettiva concezione), se la contemplazione di un’opera necessita della sua esecuzione resta il fatto che questa presuppone una contemplazione della realtà. Da che l’Arte “dello spazio” (a parte le arti “del tempo” come Musica e Poesia) veniva considerata un’attività creativa “mechanica”, poi “liberalis” fino a quando smise d’essere figurativa nel secolo “brutto”. Già per la Classicità la “Pulchritudo” (categoria metafisica) era appannaggio più che dell’Arte (categoria tecnica) della Natura, di cui per mimesi l’Arte dava rappresentazione – neutralizzando così il gusto-stile-maniera, che il Dadaismo considerava concetti borghesi e addirittura antagonisti dell’Arte. Fino alla post-moderna cultura pop dell’ultima industrializzazione ed alla contemporanea cultura dell’estetica diffusa dell’attuale globalizzazione. Provare a capire come-dove-perché ciò che è stato, è utile a trattare ciò che è non limitandosi alla convenzione della “contabilità”. Cercare di guardare altrimenti-altrove non fa accettare le cose “così e basta”, permette risposte aperte quanto le domande, tiene viva la curiosità, sposta l’attenzione dall’ordinario allo straordinario generando creatività. Perché qualcosa non è mai soltanto quella cosa. Induce a mirare ad un futuro secondo una vision, per esempio a promozione di valori etici per restituire cittadinanza alla sudditanza in quella geografia di “spazi” di cesura e in degrado del vivere quotidiano, dalla consunzione istantanea e frequentemente speso in un côté permeato di atmosfere kafkiane. Tutto ciò, l’arte figurativa nelle sue manifestazioni (le varie arti figurative si sono sempre influenzate vicendevolmente interpretando l’endiadi antropologica “Natura-Cultura”), lo veicola in modo esemplare grazie ad un’innata sua caratteristica: perpetua per creazione la realtà in forme uniche ed autentiche; a differenza della “realtà aumentata” che artificiosamente la simula per elaborazione, che falsamente si fa nuova col seme sempre uguale a se stesso dell’update release. La complessità con cui tutti abbiamo a che fare ha generato come reazione, può sembrare risibile per il paradosso, un sistema di razionalizzazione innervato di procedure. Tutte le attività ne sono state innervate (ed in parte anche costituite), professioni intellettuali comprese. Una spasmodica attenzione pesata sul “come” più che sul “cosa”. Di conseguenza un “come” normalizzato e quindi indiscriminato. Anche se il modo, essendo un veicolo del contenuto, non dovrebbe occuparne lo spazio. Ferma restando la validità tecnico-giuridica di certa documentaristica, basti pensare tanto per fare un esempio ai protocolli di certificazione applicati alle “progettazioni” che all’interno del loro ciclo non prevedono produzioni seriali o produzioni affatto. Quando invece il processo creativo è lungi dall’essere deterministico; anzi, propriamente non è neanche un processo (il lavoro dei Surrealisti ne è una dimostrazione). Forse stiamo attraversando un’epoca di velleità riduzioniste da neo-Positivismo, con buona pace delle miopie del materialismo scientifico; nel proprio campo, possiamo immaginare ed anche constatare se e quando applicato a quelli non deterministici. Prova ne sia l’obsolescenza attribuita all’ormai ritenuta desueta cultura umanistica (che di per sé è sempre contemporanea avendo come oggetto di studio l’essenza e l’esistenza dell’Uomo), decretata da parte di coloro i quali, avendo menti così illuminate da brillare di luce propria, oscurano la luminosa evidenza dell’apporto derivante dal coltivarla. Il Mito (primo “web” nella Storia), come anche lo Stile, è poi così distante dalla realtà (tant’è che permettendo di ignorarla/giustificarla, è stato usato con finalità di controllo)?

Se si pensa che il futurista Marinetti, e a buon diritto, scrisse l’articolo “Leopardi, maestro d’ottimismo” e per restare in tema, che il contestatissimo Saramago disconobbe il proprio pessimismo attribuendo la peculiarità dell’essere pessimo al mondo.

O che un noto letterato, teorico umanista scrisse un trattato sulla Pittura; e faceva l’architetto ... Con “forma” (argomento topico dell’estetica medievale e nella norma-forma rinascimentale tipico delle fasi classiche) si definisce ciò che si vede in superficie o quel che si nasconde in profondità (significativo come in Greco antico il termine forma si traduce con idéa)? L’arte musiva è semplicemente l’esercizio di una tecnica, quella del mosaico, o quella tecnica esprime simbolicamente la finitezza della materia nobilitata dall’indefinitezza della sfera trascendente? Per cui i contorni di uno spazio interno non sono netti e precisi proprio perché quella tecnica è funzionale a quell’estetica. In cui le tessere sono poste ad angolazioni irregolari su un manto d’intonaco irregolare e riverberano la luce proprio grazie alla loro irregolarità, assicurandone una diffusione continua su tutte le superfici. E siccome questa tecnica non permette il chiaro-scuro, lo sfumato, la mescolanza, i toni vengono accesi inserendo nelle zone di colore scuro delle tessere nettamente più chiare e viceversa. In sostanza viene rappresentato il processo di riscatto della materia tipico della filosofia neoplatonica plotiniana del tempo in cui si ebbero tra i più alti esempi di arte musiva (come nella Santa Sofia di Costantinopoli o la Galla Placidia in Ravenna); tematica poi largamente utilizzata in ulteriori esempi dei tempi del Rinascimento, dalla Primavera del Botticelli fino ai Prigioni di Michelangelo. Le singolari sculture di Pietro Torrigiano e Niccolò dell’Arca, le icastiche anti-classiche Madonne di Lorenzo Lotto sono “rinascimentali” o manifestano i prodromi di una nuova estetica? Il “dado brunelleschiano” è semplicemente un elemento decorativo della colonna rinascimentale, o inerisce all’evoluzione del pulvino con implicazioni di natura geometrica, filosofica e relazioni formali, strutturali sulla distribuzione delle sollecitazioni lungo gli elementi architettonici? Il Caravaggio è Barocco, o sarebbe più significativo chiedersi se il Barocco sia caravaggesco? Il luminismo del Guercino è di matrice caravaggesca o risente di un colorismo impostato più che sul netto chiaro-scuro e sulla dicromia bianco/rosso, sulla ricchezza tonale e cromatica prerogativa dell’ambiente veneto? Il cromatismo classico di Tiziano e quello pointillista di Signac sono, seppur diversi, anche così distinti palesando un fil rouge nell’estetica cui la loro tecnica si ispira? Vale a dire: come differenziare le gradazioni luminose accostando colori complementari, diminuendo l’uniformità di tono ed aumentando la brillantezza nel timbro dei colori (principio, tra l’altro, adottato dall’algoritmica nella fotografia digitale per simulare l’incremento di nitidezza dei contorni della figura). E’ persuasivo lo sguardo del “Salvator Mundi” di Antonello da Messina, quello del “Xristòs Pantocràtor” del maestro di Daphni o invece l’assenza di sguardo del Gesù delle “Cena in Emmaus” (del Caravaggio)? Si può persuadere con la verità della luce rivelata di una parete musiva bizantina, con quella mediata da una lanterna nelle composizioni di de La Tour, o magari in Merisi col dubbio dell’enigma di uno sguardo celato all’osservatore? Vedere e credere; la visione ha sempre e da sempre intercettato la conoscenza. Se Tommaso il “dídumos”, discusso gemello di Gesù, avesse potuto vedere prima, avrebbe voluto toccare poi? Posto che Tommaso possa essere un artificio letterario introdotto da Giovanni (solo nel suo Vangelo si parla di lui, e comunque non in modo così preciso perché Giovanni parla del desiderio di toccare ma non di un’azione che abbia soddisfatto tale desiderio) per sollevare la questione dello gnosticismo (alla Maddalena è il risorto stesso a dire “Noli me tangere”, l’opposto); fatto salvo che invece possa essere il contrario, che gli gnostici abbiano attinto da Giovanni l’idea del Logos incarnato, che forse il cristo sia stato ospite per l’ultima cena nella casa che Zebedeo, il padre di Giovanni, usava quando era di servizio nel Tempio (il che spiegherebbe la ragione per cui al desco fosse la persona più vicino all’ospite più importante, come da tradizione ebraica).

Detto questo, Caravaggio stabilisce una cesura con la tradizione iconografica di Tommaso, che nel suo dipinto compare in posizione di primo piano, a mezza figura e non inginocchiato a metà, tra l’altro di fronte a un dio colpito, vulnerabile, che fino ad allora era stato raffigurato a braccio alzato, come nell’iconografia antica dell’amazzone ferita. Al di là di tutto, verrebbe da dire che Tommaso siamo noi, figli più prossimi alla cultura cartesiana per cui la ricerca della certezza è sempre più stata connotata da un’impronta scettica (questa scuola filosofica prima di lui, negli sporadici casi in cui si è fatta sentire, lo ha fatto in minoranza rispetto alle altri voci). È evidente che siamo noi, così come è evidente che siamo degli scettici falliti. Perché nonostante sappiamo di dover terminare la nostra esistenza, i dubbi che ne scaturiscono non ci impediscono di vivere e pensare, scoprire e inventare, amoris causa o meno. Oriente e Occidente sono veramente culture specularmente opposte; nonostante abbiano entrambe coltivato il concetto di viaggio ultraterreno, nondimeno il fatto che Muhammad Iqbal sia stato un ammiratore di Nietzsche? O fu determinante la koinè del “medium terrae tenens” per cui morte, resurrezione e forma trinitaria del divino (non ultima quella di classica memoria del Bello-Buono-Giusto) sono la culla di una concezione escatologica, di una vita finita ed una infinita in seno all’esistenza, comune alle culture che vi si sono affacciate? La percezione del paesaggio, l’estetica del sublime/pittoresco che ne scaturisce, sono appannaggio della Pittura o Smetana e Grieg (tanto per fare un esempio) lo figurano nella forma della loro musica? L’Arte e la sua storia (come la Storia tout court) sono sterilmente soggette alla catalogazione temporale, di scuole e movimenti o scorre latente una traccia nel profilo del tempo che unisce in dialogo Artemide alla Vergine Maria, l’aureola del Cristo al Sole di Apollo, le ali dei Cherubini alle Vittorie alate, Gesù Dio Padre ornato di barba al potente Zeus, il Gotico ed il Barocco al Modernismo, Meleagro e Achille a Cristo? Un filo che traccia la traiettoria tra il “lumen” della luce fisica e la “lux” spirituale, per mezzo di una metamorfosi geometrica che vede l’evoluzione dell’arco di cerchio “tondo” a quello “acuto”, per cui imponenti masse murarie perdono la loro caratterizzazione materica per farsi luce. Dalle grandi campate trasversali delle ampie basiliche romane, alla longitudine delle altezze luminose nelle cattedrali gotiche. Il cerchio e la luce, appartenenti a categorie diverse, simbolicamente uniti nel concetto di perfezione. I concetti di larghezza e distanza, di gusto-stile-maniera attengono all’Estetica o alla Tecnica, e queste (considerando l’interpretazione del fare artistico in relazione alla poiesis e alla praxis) sono categorie separate? Genio/talento, Arte/Scienza, Natura/Cultura, Bellezza/uso, opera d’Arte/utensile, risiedono in “recinti” incomunicabilmente separati? In quota a quali relative categorie, in quanti/quali settori, secondo quanti/quali criteri di indagine e tempi sarebbero idealmente da incasellare le risposte a ciascuno di questi quesiti, è materia che si presta ad ampio argomentare. Riesce questa prospettiva a rilevare che per esempio la Bellezza è nella sostanza tragica, perché porta nella propria necessità la verità d’essere effimera? Che non appare mai a caso ma sempre a chi la riconosca, che questo accade solo nella consapevolezza di chi ne riceva lo sguardo? La sinossi catalogante della compilazione documentale di grafici, matrici, deviazioni standard, rappresentazioni probabilistiche, diagrammi e quant’altro sono coerenti nel perimetro della quantificazione più che della qualificazione. Ciò nonostante, questa logica ed i cascami che ne derivano portano plasticamente a far equivalere il concetto di quantità a quello di qualità (la ratio algoritmica, quella dei test, si basano su questo).

Più che conoscenza, sembrerebbe trattarsi di gestione dell’informazione.

È il retaggio di una cultura (vedi caso quella per cui il “gusto” si riferisce meramente ad una sensibilità fisica/materiale ed il “benessere” ad una economica/contabile) che non ha le proprie radici nella sfera “speculativa” bensì in quella “operativa”. Non è errato/corretto in sé, essenziale è in che ambito determinate logiche vengono impiegate. È infatti significativo che il benessere venga percepito ormai soltanto o per lo più come comodità, così per il progresso unicamente inteso quale quello tecnologico (poi tra l’altro emblematico che si sia andati sulla Luna grazie, anche, a computers la cui potenza di calcolo era di gran lunga inferiore a quella degli smartphones e che tutt’ora, quelli, rimangono tra i più efficienti mai progettati). Un progresso sostanzialmente declinato con la continua richiesta di riduzione di spazio e tempo: il più lontano nel più breve tempo; un riduzionismo che si rispecchia anche nel modus cogitandi-operandi. Ma soprattutto è fondamentale essere consapevoli che un conto è “avere radici”, altro è “rimanere ancorati”. Nell’un caso si parla di origini e natura, nell’altro invece di gradi di libertà e contesto. Per cui categorie come il “fare artistico” vengono sterilizzate nella loro genuina natura, assumendo un ruolo ancillare a quella logica. E pensare che Oscar Wilde era così convinto che l'Arte non dovesse mai tentare di farsi popolare, piuttosto il pubblico cercare di diventare artistico; ed estremizzando secondo Arnold Schönberg se si trattasse di Arte non potrebbe essere popolare, se fosse popolare non potrebbe essere Arte. A parte tutto, se avessimo la possibilità di visitare l’”Iperuranio”, davvero ci preoccuperemmo d’essere popolari (al netto di non avere fini altri da quella)? Breve digressione. D’altronde la scorciatoia della strumentalizzazione (adottata dalla pletora di chi manifesta atteggiamenti arroganti e di chi è uso alla pratica della snobbery) fa, caso vuole, risultare presunzione semplici asserzioni assolutamente condivisibili. Ecuméne di personaggi, quelli, in genere quasi sempre gli uni corrivi e gli altri comunque accoliti epigoni di qualche maggiorente dal dubbio nitore che da nume tutelare assurge al ruolo di comandante in capo; molto preoccupati ad impinguare il loro cursus honorum per accrescere la loro personalità e molto meno a nutrire la crescita della propria persona. E delegittimare l’altro è la reazione meno compromettente per sé; quando invece in tutte le parti c’è una ragione, un tanto di vero (fermo restando che si parli di buona fede, la strumentalizzazione non lo è mai). Vero è che comunque Warhol non era ancora nato. Ma questa, direbbe qualcun altro, è un’altra storia. La forma mentis della modellazione, sotto la cui egida la “letteratura” digitale (epigona di per sé) si fonda, può sembrare allettante; seppur sarebbe ingiusto non riconoscerne la necessità (quando usata dove serve e non fa danno) negli ambiti del pianificare, operare, verificare, condividere, promuovere, archiviare. Se si tiene in conto che del quadro ne fa somma di particolari. In una parola, semplifica. Tirando in ballo la geometria non-Euclidea, la superficie anticlastica propria delle strutture in membrana, è determinata da due serie di elementi: ad arco e a catenaria. Tali elementi, malgrado di per sé non abbiano geometria propria se non caricati a trazione, assumono proprietà statiche in ragione del loro duplice coesistere. Così il punto di “cima-gola” nelle matematiche di questo tipo di struttura, è il luogo geometrico per cui al variare della direzione considerata, esistono due curve passanti per quel punto tale per cui questo è rispettivamente punto di massimo e punto di minimo relativo; o meglio come uno iato, relativamente all’insieme non è né uno né l’altro.

O il nastro di Möbius, superficie ad unica faccia. E ancora, potremmo parlare invero del tempo tralasciando di considerarne lo spazio? Al contrario di quel che avviene in Astrofisica, per cui l’inserzione di un nuovo punto di vista in un’immagine (quanto osservato dai telescopi nello spazio, per esempio) non dà luogo ad una molteplicità eterogenea ma genera una totale omogeneizzazione delle molteplici tracce luminose (perché lo spettro elettromagnetico permette la misurazione simultanea tra diversi tipi di esplorazione), quel che accade in Archeologia, ad esempio, è ben diverso. In questo ambito le immagini sono sì prodotte da sovrapposizioni di prospettive e modalità di esplorazione, ma queste mettono in relazione immagini provenienti da diverse prospezioni in modo che siano però al contempo distinte e quindi rintracciabili; senza omogeneizzarle. Così come ben diverso è sempre nell’ambito dell’addizione di punti di vista quel che accade, vedi caso, in Pittura e Fotografia. Il caso dello specchio (come in “Las Meninas” di Velàzquez o in “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di van Eyck) è il più evidente, dispositivo in cui si sovrappongono il punto di vista del soggetto ripreso al punto di vista del soggetto che riprende; sempre ambedue leggibili al contempo. Qual è il paradigma della complessità? Non può certo esserlo l’assolutismo che, rispondendo alla ragione della semplificazione, non può rappresentare la complessità della realtà. Perché comunque nella sua rappresentazione, peraltro puntualmente statica, non modella la “soggettività”; escludendo che la realtà è, oltre ogni altra considerazione, percepita. Nel caso si usassero i mezzi non per quel che sono ma come punti di partenza o di arrivo, quale sarebbe il rischio di ottenere risultati falsati? L’algoritmo infatti formula una sequenza di istruzioni per restituire un risultato partendo dai dati immessi a sistema. Sicuramente se erroneamente si domanda risulterà assai difficile ottenere risposte corrette; così da focalizzare l’attenzione sul making problems più che sul problem solving. L’Architettura non soltanto geometria matematica è (era), descrivendo un vuoto attraverso la costituzione di un pieno, soprattutto geometria descrittiva. Vale a dire per la prima, di fatto l’Architettura post avvento del c.a.d. (da quando è arrivata a produrre per lo più qualcosa di reale che esprime formalmente falsi) e degli sviluppi derivanti dalle necessità di risparmio energetico, per la seconda, sostanzialmente quella ante. Lo fu dai tempi dell’approccio alla costruzione con la visione tettonica dei Greci e quella stereotomica dei Romani; determinando ulteriormente, questi, nell’epoca di Costantino un’importante svolta nella descrizione e quindi percezione dello spazio. Ci fu proprio un leggibile excursus, dalla costruzione delle Terme di Caracalla a quelle di Diocleziano al modello tipologico infine della basilica cristiana: si cercò sempre più di caratterizzare lo spazio interno come in realtà era percepito quale esterno nei tempi antichi precedenti. Vale a dire sempre più fittamente connotato da strutture, un’aggregazione quindi del modello tettonico tipico del gusto orientale costituito da vuoti a quello stereotomico tipico di un gusto occidentale italico contraddistinto da pieni; espressione delle istanze di una civiltà che andava mutando.

Oggi l’Architettura più che proporre col progetto una visione per e attraverso l’interpretazione della società in cui si manifesta (che dovrebbe esserne il fruitore), è come una merce di cui l’architetto da prestatore d’opera è divenuto il fornitore per la soddisfazione della committenza diventata clientela.

Nell’ambiente in cui tutto deve essere sicuro e accogliente, tollerabile e tollerante, addomesticato, idoneo e autorizzato, amichevolmente accattivante, tracciabile nell’anonimato, l’antica arte trasuda della tecnologia dei loculi ermetici di Classe A senza traspirare alcuna anima del luogo in cui viene data alla luce se non producendo col suo nascere l’imponente presenza dell’iter certificativo dei protocolli Leed e Breeam. Materie prime di un omogeneizzato deprivato del carattere. Quando una lacunosa gestione della vegetazione urbana sempre più rada (sia la vegetazione che la sua manutenzione) assurge al ruolo di “salvaguardia di bio-diversità”. E le spianate urbane più pedonalizzate dei pedoni si fregiano dell’allure di “spazio metafisico”. Atmosfere rarefatte, come sempre più rarefatto è un vivere dalla dubbia eco-compatibilità. E pensare che – dai tempi di Geb e Nut, Gaia e Chaos, quando la forma del Mondo, di un mondo vuoto e sconosciuto, diventò sempre più forma dell’Uomo – l’Architettura, “sorella” dell’Astronomia, iniziò a “racchiudere” il Cielo. Così l’Abisso fece posto al Cosmo, la voragine al definito, Natura si fece Cultura; e il modello mitico dell’Universo si riprodusse in costruzioni e città. Alla luce di questo preambolo pensando ai primi grattacieli, le cattedrali, similitudine permettendo, si potrebbe immaginare allora la complessità come una cattedrale gotica. Una composizione (persino letteraria se consideriamo la Divina Commedia) che è trait d’union fra sistema di saperi costruttivi, tradizioni generazionali, micro-economia, comunità d’impresa, identità comunitaria, matematica Euclidea applicata, sincretismo di arte-tecnologia-scienza-fede in cui trascendente ed immanente si significano vicendevolmente secondo un’istanza autentica. Ne è superstite esempio una nota cattedrale, quella di Barcelona. L’indulgenza quindi ad applicare modelli comunque e dovunque (snaturando la tecnica da applicativa a sostitutiva; meccanismo di sostituzione assolutamente in omologia a quello dell’estetica diffusa, per cui si attribuisce l’etichetta di estetico a ciò che estetico non è) rischia alla fine di alimentare proprio ciò che si vorrebbe, o meglio dovrebbe perché più sano per tutti, evitare: emulazione di un linguaggio schematico (non solo verbale) definitivo-escludente-prescrittivo, in luogo di quello descrittivo-comprendente-propositivo, inclinazione a categorizzare ragionando per caselle e cassetti (proprio come secondo la discretizzazione dei pixels), a considerare la realtà solo in funzione di un fine (il cui derivante utilitarismo educa semmai ad avere pochi scrupoli); ma fondamentalmente diseducazione proprio alla complessità. D’altra parte, quale sarebbe il risultato nel caso in cui ci venisse preclusa l’opportunità di accedere ad una palestra per allenarsi a coltivare un tipo di attitudini? Le abilità che si sarebbero potute sviluppare andrebbero perse. Mantenere libero lo spazio per un altro genere di attività cognitiva da quella dilagante invadenza può solo non essere di nocumento ad indagare lo scibile. Intromissione che in casi più gravi provoca, è risaputo, anche una recrudescenza dell’analfabetismo, quello di ritorno (un noto Michelangelo del secolo sedicesimo compilava per il suo domestico analfabeta la lista della spesa disegnando le derrate con dei simboli; per omologia icone digitali ante litteram).

E in punto di fatto, la pratica della cancel culture – un pugno di ferro in guanto di velluto – ed il ricorso alla political correctness (l’upgrade dello strumento della censura utilizzato da chi vive in “sepolcri imbiancati” e dell’auto-censura, forma ancora più prevaricante esercitata da chi, per evitare la gogna mediatica, evita di esporsi in difformità al main stream o di esprimersi a suon di litoti) come dispositivo “igienico” della coscienza collettiva, così attento ad evitare pubblicamente l’offesa nel lessico ed in camera caritatis altrettanto distratta nel permetterla di fatto, non sono forse un’ennesima discrasica conseguenza di quell’imprinting alla conformazione? Come, apertis verbis, anche le varie forme di woke culture che, sostituendo la cultura delle ideologie ritenuta nociva con quella totalizzante e riduzionista della retorica di slogan e calembours degli ossimori, sono tanto dedite di copiose battaglie per i diritti civili quanto vigili en passant per quelli sociali se non obliose con una certa disinvoltura. Tra l’altro pratica, quella della cancel culture, che non fa altro che rivelare gli aspetti illiberali tipici di un certo tipo di società e periodo, di cui la Storia riporta vari esempi in varie civiltà sia quando la si è applicata che quando ci si è astenuti dal farlo; dalle effigi di Akhenaton o di Hatshepsut alle res gestae di dives imperatores dell’Arco di Costantino sulle monumentali superfici lapidee. Così, per tornare alle forme d’incoerenza-ipocrisia-omogeneizzazione, come avallare indistintamente un unico tipo di intelligenza o al peggio ritenere tale la scaltrezza (non c’è da stupirsi se la commedia dell’arte dà contezza di quanto la furbizia sussista in contiguità alla fessaggine), perseguire il legale-giustificato indipendentemente dal fatto che sia o non sia legittimo-giusto, considerare il ciclo virtuoso onore-merito-successo unicamente dal risultato o ancor peggio ritenere di promuovere prassi ragguagliate al principio di merito evitando (più o meno scientemente) di verificare se il principio di merito che si sta applicando sia o non sia effettivamente giusto/equanime. Come scambiare il coraggio per l’audacia, assumere “critico” (o chi non cavalchi necessariamente il mainstream, e i suoi falsi miti) in luogo di “polemico”. Che sussista forse una certa remora ad insegnare a coltivare una dialettica nel confutare argomenti, scongiurando anzi di tralasciare la ricerca di punti di conciliazione? Un rigore logico-terminologico che ha fatto sì che, per esempio, il Tedesco non per nulla sarebbe divenuta la Lingua peculiare della Filosofia. Sicuramente non si può in questo non vedere incoerenza ed un’attenzione impermeabile, complici i mezzi di distrazione di massa, a problematiche non così trascurabili. A volte, volenti o nolenti, poniamo elementi apparentemente slegati tra loro, latenti in un sistema, che interagiscono quando in questo viene immesso un fattore scatenante l’interrelazione e le combinazioni dei risultati sono spesso imprevedibili.

Tutti segnali quelli che possono non avere un seguito, come preludere ed avere contiguità al pensiero autoreferenziale, al ragionamento pretestuoso e al peggio pregiudiziale (e tra l’altro, cos’altro c’è di più anti-scientifico?); portando incipientemente ad un piano patologico e da lì, per prassi cogente, a fisiologico.

Il pregiudizio: tutti ne facciamo esperienza; quante volte bussando a molte porte ci sentiamo rispondere “qui non c’è nessuno”. Tale preconcetto ha le mille facce dell’ignoranza, che non deriva necessariamente dal fatto che non si ha avuto l’opportunità, l’inclinazione o la voglia di studiare (molti non se lo sono potuto permettere, a molti legittimamente è piaciuto procedere altrimenti) ma nasce dalla crudeltà di non voler capire. Così ci sono persone di basso livello d’istruzione ma copiosamente sapienti, come persone di alto grado d’istruzione crassamente ignoranti. Il pregiudizio non è mai sempre solo da una parte. Non è cosa da poco allora, se si considera che il registro della categorizzazione viene applicato con disinvoltura nella realpolitik, anche ad ambiti cardine del vivere esistenziale e civile: una di questi, ad esempio, la “scelta” (tema peraltro sempre attuale sin dai tempi del “daimon” di Socrate e Platone all’Esistenzialismo di Sartre). In un clima culturale per cui la tecnocrazia (secondo cui tutto ciò che produce un bene che non sia un prodotto è considerato un costo invece che un investimento) mette in seria discussione la matrice creativo-progettuale della scuola umanista, quella intelligenza, che di tale ha certamente il sembiante, “altra” decide di “vedere” per noi (in sostanza delegittimandoci, anche con mezzi di sconcertante opacità) sulla base di quanto prima di noi è stato visto da altri diversi da noi. Un po’ come curare i sintomi invece della malattia, vincere la guerra e perdere la pace, avere la fama e credere sia il successo. Altra incongruenza; ed è quanto mai singolare che, dato il timore diffuso e latente dell’”altro”, questa alterità sembra invece non più di tanto suscitare inquietudine. Prima rivoluzione in cui l’homo faber fortunae suae (locuzione la cui paternità fu di Appio Claudio Cieco, Nemesi beffarda a pensarci) ne demanda l’autoralità, vede come oggetto della sua speculazione non la realtà ma la rappresentazione che ne viene fatta e per cui di volta in volta questa è stata progettata: cioè il vero-simile. Relazione tra l’altro affatto tralasciata in epoche passate, quella tra vero e vero-simile. Senza scomodare un illustre esempio di natura fideistica, uno eclatante anche in letteratura, quella manzoniana, in cui la crudeltà del rifiutarsi di comprendere presenta come sicuro per fugare ogni dubbio ciò che nel dubbio vien detto, un’ipotesi come realtà, un sospetto in veste di certezza.

Costituì pure il tema principe dell’estetica di artisti quali Francesco Mazzola, Diego Velázquez, fino alle forme d’espressione figurativa legate al marketing pubblicitario dove nientemeno che il soggetto del messaggio da veicolare è per prelazione il “vero percepito” in luogo di quello ontologico. Evidente in questa chiave, l’intrinseca connessione tra ciò che è il prodotto e quel che è inautentico. E tenendo conto che in fondo noi “siamo” in un certo senso ciò che vediamo, poiché vedendo guardiamo e guardando scegliamo (scientemente o inconsapevolmente) di inquadrare una parte di realtà, non è affatto cosa da poco. Perché si sceglie quando ci si relaziona, si vota, seleziona, cura, giudica, aiuta, governa, spende, studia, e insegna. Una sequela di esempi a suffragio su altrettante categorie. Com’è agevole cambiare le regole in corsa facendo passare una scorrettezza per capacità di adattamento al contesto. Com’è facile esporre un tesoro ad ogni possibile attacco illudendosi che lo si stia custodendo protetto. Le variabili in gioco non sono pertinenti quindi al deterministico processo produttivo, penso semmai a quello, ben più complesso, evolutivo (nulla ha a che vedere con l’evoluzionismo, che tra l’altro non è neppure Scienza di terzo livello); per cui più processi generati da causalità interagiscono per lo più tra loro per casualità. Verrebbe da dire che la risposta sta nell’efficienza piuttosto che nell’efficientismo, che assicura un risultato omnicomprensivo; la conoscenza stessa nella totalità delle discipline è olistica, ha un carattere univoco e serve per poter scegliere di andare dappertutto. In un’espressione, per essere vincenti. Già, termine surrettizio questo. A dire il vero molti concetti tempo fa dati per acquisiti andrebbero rifondati, come il superamento del giusnaturalismo col diritto positivo; per cui la solidarietà non dovrebbe confliggere con la competizione (diversamente possibile fonte di acredine, livore e di invidia sociale) per primazie stabilite dalla soggettività di un mercato piuttosto che dall’oggettività del merito (figuriamoci poi se venissero gestite da manutengoli dell’informatica).

Lo stereotipo del “vincente” che la società ci presenta oggi come preponderante, è alquanto discutibile. quel termine racchiude in sé due significati che sono l’emblema della sfida dei nostri tempi.

Si può vincere assoggettando qualcuno a sé, un vincere brutale; si vince quando al meno ci si è spesi senza derogare a ciò che vale, il vincere della vittoria. Va da sé che la motivazione è il discriminante. In tal senso è utile imparare a vincere; la “sconfitta”, è cosa nota a tutti. Il salto di qualità è considerarla un’opportunità di ulteriore vittoria; secondo un ensemble però: superamento di un ostacolo-crescita personale. Nella società ansiosa e ansiogena molti sarebbero disposti ad assumere ansiolitici pur di “riuscire”, nella falsa convinzione che vi sia una ricetta per ogni tipo di malanno; ignorando che riuscire è non sentirne la fatica, cosa che invece è vissuta come “prova”. Ma nell’ebrezza del Trans-Umanesimo altro che medicalizzare la società, bisognerebbe ri-animarla! Nella civiltà del momento che rimuove il prima e anticipa il dopo, la maturità si muta geneticamente in esame e un piano di studi si traslittera in uno di carriera; omologazione delle età declinate secondo l’assioma della prestazione. Belli, puliti e buoni (volgendo all’opposto il titolo di un film di Ettore Scola) parrebbe essere il dictat cui l’attuale società tende a conformare gli individui che la compongono. Una sorta di novella kalocagatìa? Con buona pace dell’antica civiltà greca. Ma quale verità sottende quest’estetica? Quale bellezza, bontà e pulizia? Quelle della persona; o quelle del simulacro, della forma, dell’evento? La cura del sé è premessa a qualcosa di diverso dall’aumento delle proprie prestazioni, si traduce in qualcosa di altro dalle occasioni di rigenerazione offerte dal mercato del wellness? È questione di aumento o di crescita? Finta ricchezza e vera povertà possono coincidere? Se mai comprendere sia stato facile, oggi lo è ancor meno, visto che sapere diventa sempre meno faticoso (o meglio poco ci si cura delle collateralità del “come”, inteso come percorso per arrivare a sapere), e si fanno equivalere i significati dei due verbi. Basti constatare come in ambito di educazione-formazione per assicurare risultati in tal senso vengano previste prove cosiddette “di realtà” secondo un sistema che educa alla virtualità (una delle stravaganze, la più abbagliante). Bizzarro che ci siano curiosi e tutt’altro che infrequenti paradossi, per esempio, di persone che assistono dal vivo a spettacoli di concerti, fuochi d’artificio, da spettatori attraverso lo schermo dello smartphone. La risolutezza, quale illusoria risoluzione, nell’affidarsi ciecamente allo “schema”, logica che trova risposta nella “velocità” che (simmetricamente in antitesi con la variabile complessa del concetto di cultura) stigmatizza una contemporaneità sempre più transeunte: anche la più raffinata eziologia arriverebbe ad affermare che per nulla lineare è stabilire quale dei due fattori sia causa o effetto dell’altro. Semmai dovesse sussistere qualche problema, qualcuno (altro da me) ci penserà; quando la confermazione di autoreferenzialità è inversamente proporzionale all’assunzione di responsabilità. Da una parte la smania di programmare indifferibilmente tutto (paradossalmente in una realtà sempre più connotata di precarietà), contestualmente dall’altra l’incultura del procrastinare, figlia anche e purtroppo dell’abitudine pervasiva al “pagherò”. Mossi dagli interessi ingenti del presente, miopi ai più compromettenti del futuro.

Una velocità che induce unicamente ad un sistema binario, pensare-agire; una linea che però genera altrettanto unicamente routine. Oltre a pensare ed agire (nella migliore delle ipotesi la seconda conseguente alla prima) c’è un’altra dimensione che pone il rito come alternativa alla routine: l’attività contemplativa. Quella velocità nutrice di cose realmente desiderate ed ottenute in dimensioni virtuali; dove la virtualità è categoria estesa e trasversale che sussiste ogni qual volta si voglia ricreare un’autenticità che più non sussiste. Si pensi, per esempio, alle centinaia di metri quadri chiusi da pareti, pieni di persone che corrono su nastri rotanti munite dai padiglioni auricolari fino alle caviglie di tecnologiche meraviglie. Non certamente una velocità propositiva che ritroviamo nelle creazioni di chi ne fece un vessillo, i Futuristi, ma di una moltitudine che spostandosi quanto più velocemente possibile da un punto di partenza ad uno di arrivo tanto meno presta interesse al percorso. John Ruskin già due secoli fa non riusciva a figurarsi come un’umanità che sapesse così poco del mondo avendolo percorso lentamente, avesse potuto conoscerlo meglio viaggiando più velocemente. Non per nulla il viaggio e la sua estetica si sono radicalmente snaturati, diventando prevalentemente esperienza di soddisfazione di stereotipi di tendenza o semplicemente per appagare voluttà di acquisto. Disconoscendo ciò che secondo il pensiero moderno è fondamento dell’esistenza (vale a dire il pensiero) e della conoscenza (vale a dire il dubbio), quella certezza “vincente”, ingannevolmente rassicurante, nasconde un potenziale pericoloso: il meccanismo per cui pensando di sapere si è meno spinti a voler comprendere. Mentre invece più si conosce, più bisognerebbe esser portati alla consapevolezza di non sapere. Se il dubbio infatti venisse ricercato/coltivato cadrebbero miseramente molte presunzioni. Si tratta allora di porsi in un tempo “libero” che metta a tacere il rumore e tenga lontano il torpore; uno spazio più che un luogo, esteso più che finito. In cui ridefinire continuamente i termini della propria individualità più che ricevere una ridda di istruzioni-informazioni, le cui fonti oggi sono numerose e tutte frammentariamente esterne a quella dimensione. La dimensione di un’ inesauribile e rinnovabile wunderkammer, in cui un’esistenza è mille vite. Preferiremmo allora essere funzionari della tecnica, magari pure “cortigiani”, o piuttosto persone concorrenti ad un effettivo progresso, sensibili in primo luogo alle questioni valoriali per competenza più che ai meccanismi premiali di punti e bonus; seguaci nell’entourage di chi esercita suadenti “influenze” od autonomi cognitivi, inclusi o appartenenti, referenti o persone di riferimento, colti o funzionari della cultura? Ognuno vale proprio tanto quanto ciò a cui dà valore. E valere dopotutto è più interessante che contare, discernere è più importante (anche più impegnativo) che misurare.

Soprattutto quando, per una reificazione déjà vu, alle persone vengono attribuite le categorie delle cose e viceversa, ed il vero-simile ha il ruolo del primo attore a scapito del vero.

Che non confondere sia funzionale a non considerare separati in modo miope teoria/pratica, intelletto/sentimento, modello matematico/modello artistico, Tecnologia/Umanesimo, Scuola/Lavoro, per poter esprimersi, comunicare, agire in modo non convenzionale e creativo avendo credito e partecipazione nei contesti dell’attualità, sia essa di patrimonio collettivo “nostro” o di altre culture? Che sia utile a chiedersi come mai talvolta a sentir parlare, ormai assuefatti alle produzioni omologate, siamo così circondati da cosiddette eccellenze; che sono forse un ossimoro in ragione della loro numerosità? Laconicamente: che serva a sviluppare, in un ambiente contraddistinto dalla medietà, l’attitudine a non idealizzare il banale; e viceversa? Forse vale la pena ricordare che ci sono persone che persino scomparendo dall’esistenza sono perennemente superstiti a chi in esistenza a loro comparazione scompare. Abbiamo da sempre oscillato tra due estremi, quel che potremmo raccogliere sotto queste categorie duali: il solido-statico ed il fluido-dinamico; che è un insieme del tutto trasversale al binomio antichità-contemporaneità. Approntare in una piazza, altro esempio reale, quattro pali la cui sommità mostra i nomi dei punti cardinali nell’epoca di Google Maps, della società fluida e dei (non) luoghi diffusi è un messaggio (quand’anche provocatorio negli intenti) dal lessico tipicamente attuale: da un’antichità sovraccarica di significati e di espressioni ad una contemporaneità ridondante di banalità. Dove a turbare non è certamente la sua inutilità, che è prerogativa della più parte di tutto ciò che attiene alla Bellezza. Parlando di un’altra arte figurativa, la Fotografia. Questa, secondo me, è una sola e il digitale è solo il mezzo attuale per la sua divulgazione. Lo dimostra anche il fatto che un’innovazione di successo è tale se perdura nel tempo; evidenziando come quella cosiddetta analogica non solo non abbia mai conosciuto fine ma sia anche, vintage revival a parte, oggetto di ridestato interesse. Da quando il mondo ha preso ad essere rappresentato più che interpretato, iniziava ad esser considerato segno di progresso la ricerca di dettaglio e nitidezza; paradossalmente una cristallizzazione opposta al mondo che si rendeva “fluido”. Si è per lo più passati da una tradizione tendenzialmente florida, a parità di progresso tecnologico ben inteso, di riprese da lontano, a connotazione più “intimista”, più lirica che prosaica ad un’estetica dominante più indirizzata all’immagine cruda, chirurgica. Uno sguardo che riprende contemporaneamente in campo lungo per l’ambiente ed in primo piano per il soggetto sospeso nel suo divenire, se vogliamo più “naturalista”; un’azione di chi riprende che subentra nell’azione di chi è ripreso in una sorta di protagonismo bifronte. Nella rappresentazione, all’attimo si preferisce il fluire dell’evento; cultura del video (anche delle sue esecrabili aberrazioni) insegna.

Per non dire poi di quanto oggi, più che la Fotografia, a parlare sia l’estetica del vernissage e della photo marathon. Il palcoscenico della diretta fatto di parole, interviste, articoli, recensioni, sponsorizzazioni, di personaggi freneticamente presi da pareidolia. Sarà allora un caso che secondo questa estetica ci sia di pari passo una bulimia di immagini per una bulimia di soggetti che queste immagini, diffuse come un meme, nel Mondo consumano? Un mondo dal sempiterno Presente che dimentica il Passato, che del Futuro ne fa un monumento e ricorre al vintage per nascondersi la regressione. Singolare come una società dal futurocentrismo così dichiarato, così diverso da quello della sua omologa di un secolo fa, sia così prona al rétro, al revival e al reboot, nonché al refrain. Nel mondo di cui si è forse preoccupati di perdere la connessione più che la cognizione. E il naufragare nella bramosia di consenso sembra dolce al pensiero dell’approdo felice che è la dispensa di svariate forme di riconoscimento, “seguendo” il soggetto più gettonato. Come se si avvertisse, magari per inconscia fascinazione o per propensione al gregarismo, di ritrovarsi già al largo in affollata solitudine nel pelago dell’indifferenziato ed indistinguibile. Dove darsi una “voce” per non scomparire nella canea diviene la condizione per risultare evidenti, la stessa voce che essendo identitaria diventa però clichè irrinunciabile a meno di non perdere l’identificazione stessa. Mare dal moto monocorde in cui a volte è arduo distinguere il piattume dal pattume, in cui il superfluo, l’offerta di default del “kit” come un “tutto di serie” e per giunta molte volte nemmeno richiesto, non solo è a portata di mano ma anche di fatto imposto (in tal caso impera invece il “pacchetto” ed il “prepagato”). In cui esclusivamente certi doveri sono sacrosanto diritto, spesso tutelato più di altri diritti; su chi poi ne professi a buon diritto o meno la tutela, si potrebbe diffusamente dissertare in ampie discussioni. Una tutela secondo l’interesse di bottega (di chi decide in privato ciò che debba andar bene nel pubblico) troppe volte presentato come comodità per tutti (un iter obbligato, una condizione, non può corrispondere al principio di commoditas) a danno – con o senza dolo – di una fattuale utilità dei più. Mentre il necessario/utile o viene praticamente negato o è disponibile a caro prezzo. Credo sia sostanziale chiedersi (almeno chiedersi) le ragioni per cui ci si è ritrovati a tollerare questa autentica “merda”. Intesa nel suo significato meno prosaico, semplice scoria, una superfetazione, un di più. Tale è infatti quel che non nasce da un nostro effettivo bisogno, ma generato da qualcosa altra da noi che crea le condizioni per cui sembra che non se ne possa fare a meno, diventando irrinunciabile più che indispensabile.

Tra le cose che il mondo della tecnologia dell’informazione e della comunicazione impone (più che proporre) c’è forse realmente qualcosa di veramente rivoluzionario?

Vale a dire qualche funzione sconosciuta o inibita fino a qualche tempo fa che ora viene instradata nella contemporaneità? O sostanzialmente si tratta piuttosto di una diversa modalità di espletare una data funzione. La creazione di un bisogno fittizio che fa provare mancanza e che quindi genera desiderio. Altra cosa invece è quel che è veramente necessario, ciò a cui si tiene, per cui proviamo passione. Vedi caso è quel che ci fa stare bene. Così come è fittizia la situazione di rischio onnipresente perché si possa opporre un apparato in grado di garantire sicurezza. Più se ne avverte l’esigenza di percezione e meno si accetta l’imprevedibile. Su questa scia allora si preconizza forse un’evoluzione modulata secondo un ”progresso” che vuole, da una parte l’intelligenza artificiale che si sostituisce all’Uomo nelle attività decisionali (per cui la macchina non è più solo un mezzo ma sempre più sostituto senza coscienza però autodeterminante), e dall’altra una versione aggiornata dell’Età della pietra in cui ogni individuo, sempre più “in” contatto essendo sempre meno “a” contatto con gli altri, dovrebbe potenzialmente essere in grado di occuparsi, praticamente in modo esclusivo, a fabbricare da sé ciò di cui ha bisogno? E la civiltà consumista ci ha già dato un saggio sulle conseguenze dall’artefatta necessità di produrre-consumare freneticamente, dalle nuove forme di schiavismo per i nuovi poveri, allo sleep tourism per i nuovi ricchi (anch’essi schiavi). Grande assente: l’attività contemplativo-speculativa, anche spiazzata da quelle più modaiole dell’hic et nunc di gusto esotico (probabilmente misconoscendone la vetusta paternità latina prima, del kairós greco ancor prima, ed esistenzialista poi). Curiosamente fu proprio quando l’uomo primitivo potè dedicarsi ai bisogni non primari che iniziò a verbalizzare e quindi a rafforzare i legami di gruppo, ad acquisire prima il linguaggio simbolico e subito dopo quello metafisico. Si può crescere senza progredire, se non talvolta regredendo. Al netto del fatto che l’uomo in quanto essere imperfetto è destinato a progredire, il concetto di progresso è tra i più relativi. Gli Egizi per esempio svilupparono una civiltà sopraffina perdurata millenni facendola crescere nell’immutabilità. Volendo invece parlare di progresso riferendosi alla categoria della quantità, alla tecnologia, ... basti pensare che all’inizio del secolo scorso si disegnava a mano praticamente sdraiati su svariati rotoli di carta distesi su estesi tavolati, per progettare grattacieli. Se si salta per coprire una distanza, forse sarebbe opportuno considerare quali passi si sta rinunciando di fare per arrivare più in fretta e dove. Viviamo la stessa era che ebbe inizio con la scoperta del Nuovo Mondo ed in questa, un’epoca che rende trasversale pressoché qualsiasi fenomeno alla luce di una prossemica rivoluzionata. Planetaria l’era, della globalizzazione l’epoca. Oggi che la civiltà, quasi come in un ciclico ripetersi, sembra scommettere la ripresa del suo cammino dal meridione orientale del globo terracqueo; il conflitto geopolitico ancora una volta si combatte sul terreno della tecnologia; la rivoluzione digitale si presenta come una preziosa opportunità di crescita-sviluppo-progresso. Credo che in fondo si possa dire che la realtà sia sempre stata guardata attraverso una lente, più o meno ad arte. Il fatto è che la matrice di pensiero che sta alla base dell’uso di questo strumento è che si voglia far credere che i problemi che la complessità pone siano risolvibili paradossalmente con logiche riduzioniste, primo fattore rischioso, formulate e/o usate dai “fabbricanti” di quelle lenti. E’ ormai quindi cruciale “distinguere” il genuino dal fasullo consci che lo spurio non dell’ibridazione bensì dell’omogeneizzazione è figlio, con la visione che comprende ed attrae più che percepire alla cieca con la lente che distorce e distrae. Riconoscendo che mentre il vero è sempre – a voler escludere quello rivelato – almeno reale, quest’ultimo può anche non essere vero; per cui sarebbe artificioso (magari anche apprezzabile nell’ambito estetico) se non deprecabile (nell’ambito etico) presentare come vero qualcosa di reale sapendolo falso.

Oggi per lo più si è abituati a reputare vero solo ciò che è reale dimenticando che il vero è l’autentico (si pensi all’esempio dei miti il cui rapporto con la realtà, tra l’altro, è tutt’altro che assente); questo perché viene a mancare la spiritualità, che si è più portati a ricercare lontano da noi mentre è assolutamente a portata di mano volendola riconoscere. Ma essendo la realtà cosa molto complessa, i due ambiti spesso hanno tra loro confini ondivaghi, soprattutto quando uno venga usato in funzione dell’altro; la propaganda ne è un chiaro esempio. Se si pesca nella Storia è indicativo che ove si sviluppino forme di aristocrazia là viene tenuta in pregio la categoria del valore; dove la democrazia invece quella del successo, fra l’altro con la contiguità della categoria del mercato. E laddove non sussista un sentire comune, che si condivide e di cui si è convinti, là si ricorre alla costrizione. Paradossalmente è proprio la democratizzazione di certi mezzi a poter compromettere la democrazia. Il meccanismo subdolo del “virtuale”, giustapponendo il falso al reale cioè generando il vero-simile, è pericoloso per questo; si sostituisce al naturale opposto del vero (che è falso), rendendo più fosca la differenza tra vero e reale. Un fenomeno esemplificativo se peschiamo nel mondo dell’Arte. Intendere per esempio il dipinto come una finestra, implica individuare il luogo dell’osservare quel dipinto nello stesso dipinto. L’effetto consequenziale è creare la percezione per cui lo spazio del dipinto continui in quello esterno, vale a dire quello da cui viene guardato il dipinto. A svolgere questa funzione è, posto all’interno del dipinto, il punto di fuga che in linea con quello di vista dello spettatore, all’esterno del dipinto, crea quell’illusione. Differentemente, nei dipinti medievali i fuochi dei punti di fuga coincidevano idealmente con lo spettatore: lo spazio convergeva nei suoi occhi, veniva proiettato all’interno della visione. Non fu però assente una trasgressione all’unità prospettica lineare: la prospettiva rovesciata. Quella per cui la costruzione dei volumi porta ad avere linee parallele ed ortogonali rispetto al piano d’intercisione ottica, quello del dipinto, che divergono invece di convergere in un punto su quel piano. Era il caso delle icone di santi dipinte su tavole. Nella ritrattistica del Seicento, ancora, il viso ritratto fissa con lo sguardo l’osservatore; generando così un dualismo. Il ritratto diviene auto-ritratto per cui il soggetto è anche osservatore del dipinto, superficie assorbente che si trasforma in riflettente: lo specchio. Il punto di fuga nell’osservatore diventa psicologico. Indirizzare lo sguardo negli occhi del volto ritratto coincide col guardare gli occhi che hanno guardato gli occhi del pittore; vale a dire vedere riflesso in questi occhi il suo sguardo. Quando il Tardo-rinascimentale sfociò nel Barocco, sperimentò una possibilità del confine (stando alla classificazione catalogante degli stili): l’elasticità per così dire. Lo fece attraverso un eccesso, estremizzando proprio dei dati, quelli della prospettiva lineare, fino a variarne al limite il punto di fuga oltre il quale la stessa prospettiva si annulla; ecco allora il trompe-l’oeil, l’anamorfosi, lo scorcio. La nostra civiltà, barocca e sensista, privandoci per alterazione dell’esperienza della cornice con l’attrattiva dell’immersività, presenta come reale l’irreale e come vero il falso. Impoverendo invece proprio la dimensione dell’immaginifico ha reso neutro lo stupore, sostituendolo con il sensazionalismo. La virtualità nasconde con un’illusoria libertà l’abitudine all’indistinzione. Gli occhi perdono la facoltà di indagare fuori dalla cornice, sede del reale, perché immersi nell’immagine senza confini; immagine che a sua volta perde la sua funzione di rappresentazione spacciandosi per reale. E venendo a mancare il supporto, come una tela o uno specchio, manca proprio l’unica evidenza della separazione tra reale e virtuale.

È proprio questo sguardo sul mondo, peregrino il più possibile per ampiezza di indagine e varietà di argomentazioni, a restituire l’armonia di un quadro mirabile che a noi disvela la piena consapevolezza di essere tutti e ognuno accomunati dalla e nella ricerca del nostro destino.

Non potremmo che salutare con gioia l’idea di sentir parlare di scienziati che inventando scoprono, di scrittori che scrivendo figurano ed artisti che componendo raccontano. Forse allora l’alienante damnatio memoriae dell’omologazione – la più ampia ed allarmante, quella delle coscienze, quella che forma una società fatta di controllori/controllati, di assistenti/assistiti, anche quella per cui a non credere più in nulla si finisce per credere un po’ a tutto – questa distopia nichilista di rifiuti e naufraghi, e i conseguenti sgretolarsi del senso di sacralità (che in maniera marginale ha a che vedere con la religione) e polverizzazione del concetto d’identità (di vario genere) sempre più evanescente, non saranno poi così inevitabili. Sembra quasi simbolico ma comunque significativo di quest'epoca il fatto che la memoria che viene meno sia un fenomeno marcato sia nella dimensione esistenziale che in quella patologica. Che bisogno ce ne sarebbe visto che è soppiantata dalla cieca fiducia nel dato registrato? La memoria è in fondo quel che da forma all’identità; e vedi caso le questioni che riguardano quest'ultima sono messe ampiamente in discussione. Qual è quindi la via di un’auspicabile resipiscenza, il fattore dirimente? E’ qualcosa che cambia l’ordine di quelle “caselle e cassetti” nella forma della mente, trasforma la disposizione degli apparati di quella “wunderkammer”, rifuggendo dal conformarsi al dictat dell’algoritmo (aggiornamento contemporaneo del moderno Leviatano di Hobbes). Autenticamente può farlo solo l’intelligenza vigile e coltivata nel tempo della persona grazie alla logica ad adiuvandum, non quella al ribasso e programmata ad excludendum di un cyber-mondo (in cui lo strumento porta la materia a perdere l’oggetto del suo studio); anche nel caso in cui questa fosse programmata ad auto-programmarsi. Perché lo farebbe inevitabilmente sulla matrice di un modello pre-disposto a scegliere quel che agevolmente piace a quelli che piacciono al posto di quel che avvedutamente giova a quanti più possibile, in una sorta di vista monoculare che ammicca più ad un’illiberale demodossologia più che alla liberale democrazia, col ricorso all’autenticazione per simulare l’autenticità. Uno tra gli esempi: quanto accade alle immagini condivise sulle piattaforme social, novello proscenio di umane fortune/disgrazie (quando “vedere” e “fare” diventano azioni significativamente compromettenti ecco che “far vedere” risulta essere una salvifica panacea), che possono essere ritenute inappropriate.

Tutto ciò lascia un po’ interdetti, la mente va a varie raffigurazioni da quella dell’Isis lactans a quella della Madonna del Latte. Ed è curioso constatare come la mancanza di liberalità si manifesti in varie epoche per diversi ambiti. Laddove la modellazione, inficiata per natura da un pre-giudizio, crei danno con le sue degenerazioni, lo fa almeno doppiamente: poiché per scongiurare il vero danno – vale a dire quando veramente sussiste – omogeneizza l’insieme (nel caso la figura del seno femminile) di tutte quelle immagini che arbitrariamente ricomprende nella sua monca categorizzazione per mezzo di una preventiva azione censoria (e per di più con escamotages palesemente risibili ai fini di un’effettiva mascheratura quali il giustapporre una linea su un’area). Un modello solipsistico che non distingue e non bada alle differenze, nella fattispecie iconografiche. Fino ad arrivare ad esempi in settori che per loro natura non sono affini alla rigidità schematica quale gran parte dell’universo valutazione-certificazione-validazione, sensibilmente determinanti nella vita reale. Ma cosa ha a che fare l’Arte, nelle sue manifestazioni, con tutto questo? Se qualcuno, un artista, più di cinque secoli fa non avesse “visto” l’Uomo artefice della trasformazione del pianeta (non preoccupandosi della piaggeria, dei precedenti tentativi evitando di imitare quelli riusciti e di quelli falliti sovvertendo il risultato), probabilmente oggi non avremmo tecnologia. Se qualcuno, un artista, più di un secolo fa non avesse “immaginato” l’Uomo varcare le nuove Colonne d’Ercole nello spazio del suo tempo e guardare da lontano la Terra, scrivendo un romanzo in cui addirittura se ne illustravano le modalità senza che quei mezzi fossero ancora stati inventati, con ogni probabilità oggi non potremmo raccontare (negazionismo ostante pure) d’aver visitato noi tutti il Mare della Tranquillità; in realtà per “scoprire” poi la Terra. Inventare, dominio della Scienza, è infatti imbattersi in qualcosa la cui matrice è già presente in latenza, la cui scoperta è stata per rivelazione dell’Arte. L’una disvelando, l’altra rivelando.

La conoscenza è il miglior investimento per il futuro; lo è da sempre. di questo facciamo esperienza attraverso la connessione memoria-ragione-immaginazione.

Investire usando i mezzi che la tecnologia ci offre, ma in assenza di “tradizione” (nel puro senso del termine), porta ad avere nell’attualità posizioni incerte, comportamenti erratici con conseguenti errori o peggio sbagli. Sempre ricordando che si è in transito sulla servitù di passaggio di una proprietà non nostra. Nel caso in cui qualcuno dovesse ravvisare in questa particolare enfasi per il “classico” una nostalgica vena di passatismo, verrei frainteso. Passato tra l’altro spesso oggetto di un atteggiamento pregiudiziale fuorviante che lo vede in connubio/sintonia ai sentimenti di nostalgia e malinconia (peraltro diversi tra loro); esteso preconcetto avallato dal crescente trend della corsa al pensiero esotista del “qui ed ora” (la cui paternità è null’affatto esotica). È in effetti proprio un dato che varie contemporaneità hanno visto utilizzare la querelle Antico/Moderno per interpretare quel concetto con l’intento di immaginare, i mezzi poi alla tecnologia, il futuro della propria società. Per giunta non sempre il “nuovo” è foriero di modernità così come il “moderno” di novità (e spesso il finto moderno prende il posto dell’antico autentico); facendo emergere che il contemporaneo ha la vetustà del moderno, l’antico l’eternità del sempre nuovo. L’Arte, interprete di tutto questo, si fa così rivelatrice di come quel fattore armonizzante abbia traghettato tra le epoche il frutto di mutui scambi, suggerendoci che questo modo di guardare il Mondo, ancorché discusso in termini di evitabilità o di utilità/necessità, è incredibilmente progressista di per sé. Sarà pleonastico richiamarlo, ma l’Arte è sempre stata “multimediale”. Questo aspetto può sembrare inespresso perché in passato la multimedialità era insita nell’approccio dell’atto creativo (in quanto olistico), in in-put si potrebbe dire. Oggi gli esempi di multimedialità si manifestano attraverso vari out-put; la percezione a settori della realtà trova quindi una via più immediata, con una consequenziale ridotta capacità olistica (a causa anche e soprattutto alla nomenclatura di rigidi protocolli certificati). Posto che quel che si mette in discussione non è il dato ma la fede nel dato, l’azione sperequata, l’uso erga omnes del Digitale (la mistificazione gli è connaturata) è sempre secondo la logica del Cavallo di Troia: si manifesta in un modo ed opera nel suo opposto, si presenta come soluzione di un problema ed agisce creandone altri a cascata. Impiega un’intelligenza circoscritta che non accetta, temendola, l’incertezza andando a sostituire la percezione (sensazione ed emozione) con l’informazione, l’appeal del non conosciuto e la necessità del dubbio con la sete di sicurezza e di certificazione (che per certi versi può anche costituire una forma di censura). Per raggiungere una forma più rassicurante di conoscenza, dopo aver creato artificialmente una dimensione di rischio che richieda un’azione di prevenzione/riparazione. Anche solo in Fotografia, per esempio, si consideri che esistono le “content credentials” su soggetto e contesto per certificarne l’autenticità. Lo scatto di una foto analogica è esso stesso testimonianza di verità. Oppure in altri ambiti, laddove sussista un evidente bisogno corrispondente all’impossibilità, per esempio, di fruire di un servizio a causa di una mancanza di prossimità (reale o funzionale che sia) dalla fonte di offerta. Il problema sta nel veicolare il concetto di "dovere" attraverso quello di "potere" senza che si tenga conto di quello di "volere". Ove sussista la legittima necessità di una parte si deve poter usufruire, non uno ma tutti, della soluzione ma non si può doverlo fare, non uno ma tutti, contra voluntatem (un’imposizione può essere legittima ma non giusta) eludendo l’esistenza di effetti collaterali anche dannosi per l’insieme. Succede che la categoria economico-politica veicola l’applicazione di determinate soluzioni presentandole in forma di doni (in realtà da pagare, “altrove”); lo fa sotto la veste, anche con una certa non troppo celata bonomia, di un’altra categoria, quella morale (eludendo però quella etica). Ora che si è troppo avanti per guardarsi indietro ma con troppe speranze per non guardarsi le spalle, adesso che abbiamo quindi avuto alle spalle quel tanto di tempo, di questa rivoluzione che ci trasporta in una nuova era, per constatarne anche le implicazioni affatto confortantemente positive, potendo vedere dovremmo soprattutto non esimerci dal guardare e dal fare valutazioni sia ex ante che ex post. E per salvaguardare l’imparzialità di questa speculazione sarebbe nostra convenienza che l’affrontassimo con strumenti alternativi a quelli del processo omogeneizzato/ante che la logica (con meccanicistiche procedure) di quella rivoluzione ci offrono; un soggetto che non guardi ciò che si aspetta di vedere. Chi vede prima si rivela intellettuale, chi vede oltre artista (oggi sempre meno tale e sempre più designer). L’artista intellettuale, benché si fermi e guardi, risulta more solito invisibile ai più; in genere chi dispensa illusioni rimane in compagnia, chi ricerca il vero si dimostra sempre outsider. Occorre infatti e in sostanza uno spettatore, che sia nelle sue corde neofita il più possibile nell’atto di guardare. Non per nulla l’Arte manifesta una traiettoria inattesa che aggiunge profondità altrove. Abbiamo allora bisogno di uno stupore, ragione non ostante e pur presente. In un sistema che vive in/di emergenza e scadenze negli scenari modellati dai cronoprogrammi, mitico personaggio, questo, protagonista del fine concetto latino di ozio, percorre i secoli errabondo come un viandante proiettato ad orizzonti che ispirano il Sublime; la fretta e lo scopo i suoi peggiori nemici, coltivando lui quel che ha valore di per sé. Tutto scorre davanti e in lui che sfugge ai prodotti della rivoluzione industriale, protagonista di racconti di Allan Poe, di Rilke e di Auster. Dalle panchine stravaganti del Giardino di Bomarzo, dall’esedra di Alma-Tadema, a quelle della Piazza del Mercato di Gaudì, a quelle di Villa Pallavicini a Genova, di Monet a Givency, di Van Gogh, a quelle letterarie di Sartre e cinematografiche di Antonioni (il Cinema è sì un simulacro del reale ma è finzione che dice verità), ... Per arrivare degradato, da visionario che era a voyeur, al nuovo secolo fervido di stimoli veramente creativi che vanno dallo shopping al cazzeggio digitale. Fino ad oggi, lui (al pari di tutti coloro che non rientrano in catalogazioni certificate) cui non si concede la panchina per leggere, studiare, amoreggiare. Anche solo contemplare estasiato l’Infinito, padre di eterne creazioni. Gli vengono sdoganati da un Illuminismo di nuova illuminazione l'eroismo da confinamento (al riguardo sono convinto che sia di gran lunga più coercitivo il vuoto a tempo indeterminato che il chiuso a tempo determinato) e la cosiddetta attività motoria; quando i molti corrono rassicurati verso il nulla. Che sembra avere più scopo dell’Infinito di pochi. Dalla mela di Adamo ed Eva alle sirene di Ulisse e al Little Boy del Progetto Manhattan, quello spettatore ha sempre indicato all’uomo di seguire virtù, e conoscenza. Di tenersi lontano dal mondo dell’inautenticità e soprattutto della superficialità, perseguendo una consapevolezza che aiuta a distinguere il timore dalla ragionevole preoccupazione, il discorso dai rumors. Una consapevolezza che rende visibile come lo stato di decadimento che la “modernità” di questa contemporaneità, e di altre in passato, ha portato abbia origini complesse. Queste origini risiedono per esempio nel potere che la conformità insedia quando le ragioni de “gli altri” (la folla/la massa) sopravvengono a quelle dell’”individuo”.

Una modernità che pone sempre più attenzione all’apparenza di superficie, alla frenesia, ampliando lo stato di straniamento che l’Uomo si trova a vivere. È la consapevolezza di quanto il vivere bene insieme sia una costruzione instabile ancorché fragile, la cui sicurezza trova sicure fondamenta in un sistema di convinzioni sufficientemente essenziali nel quale la maggioranza si riconosca e conseguentemente possa garantire la propria lealtà. Quel che, non di un prodotto/servizio ma di un bene, viene fondato sul paradigma della commercializzazione (e quello del “mercato”, che ora arriva ad essere in contrapposizione a quello dell’”arte”, ha ormai applicazioni molto trasversali; l’esempio del sistema del Cinema delle piattaforme multi-mediali piuttosto che degli artigiani di settore è molto eloquente), si riduce inevitabilmente a strumento di soddisfazione temporanea, destinato ad essere moda nel Presente e vetusto nel Futuro: vale a dire a non diventare “classico”, e non per costituire un canone bensì per essere sempre attuale; ma soprattutto in questo suo essere per niente impegnativo, non richiede alcunché né induce a porsi domande. Una fra le domande sarebbe quella per cui ci si chieda cosa muove una comunità a preservare/distruggere i simboli/testimonianze ricevuti dal passato, la memoria collettiva. La volontà di porsi questa domanda rende moderna una contemporaneità; non rimane che il passatismo per chi resta ancorato al Passato e, per contro (sembrerebbe paradossale), per chi crede che il Presente sia l’unico soggetto attivo a realizzare progresso. Per chi categoricamente contrappone innovazione a tradizione invece di porre in evidenza variazioni e permanenze (non foss’altro perché la tradizione è evidentemente un’innovazione ben riuscita). E per chi bolla di “passatismo” coloro che ritengono fondamentale lo studio dei “Classici”, gli origina(r)li universali perché senza tempo e non quelli re-interpretati, non considerando che l’Umanesimo è stato un fenomeno tutt’altro che relegato al Rinascimento, ma soprattutto inconsapevoli di quanto sia chiave di volta per comprendere la caduta, tutta contemporanea, della nostra civiltà. Forse mai come ora si avverte che il crepuscolo del pensiero occidentale non viene dal suo esterno ma è la sua stessa ombra. E non sono certo clamorosi incidenti ad averla resa visibile, è un salto (nel buio?) iniziato poco più di cinque secoli fa. Tutti si prodigano a parlare oggigiorno di post-Umanesimo. Ma l'Umanesimo iniziò a violare fin dall’inizio i principi su cui si era dato un fondamento. Estrapolando esclusivamente "Conosci te stesso" e tralasciando, fra le altre iscrizioni nel santuario di Apollo a Delphi, "Nulla fuori di misura". L'io in cui ha creduto si è dimostrato fallace. L'"Io penso" di Descartes, l'"Io contro Dio" di Nietzsche"; una vaghezza di ragione e libertà. I messaggi profetici dell’Arte non mancano mai di svelare verità. Ne “La peste di Ashdod”, ad Umanesimo già rodato da due secoli, Poussin fa entrare in scena di lato nel quadro, come un dispositivo teatrale nel teatro che è il suo dipinto, un deus ex machina da copione barocco: un fanciullo. Questi suggerisce la possibile riconciliazione tra Io, monumento di quella cultura, e Dio. Qualcosa, un presupposto di cui si sarebbero fatti porta-voce Marx, Darwin, Freud, stava quindi certificando, con metodo, un metodo che permetterebbe di detrarre alla volontà divina la realtà: una deificazione, quella della Ragione attraverso il libero arbitrio; che in “divino” non legge “sacro”, leggendo la funzione ma non il significato. Da allora progressivi entusiasmi, che mettono però in luce la contraddizione secondo la quale i risultati “scientifici” sono per loro stessa natura provvisori e passibili di falsificazioni, o meglio mistificazioni. Cosa da cui le rappresentazioni dell’Arte sono immuni a causa della loro propria natura: l’autenticità umana. Qualcosa di completamente diverso, e davvero rivoluzionario, dall’estremismo egotista e volontarista umanistico del “Possiamo diventare tutto ciò che vogliamo.” di Pico della Mirandola e de “L’uomo può fare qualunque cosa, purché lo voglia.”. Mettendo l’Uomo al centro dell’Universo, l’Umanesimo ha preteso di costituire un ordine terreno in cui potesse prevalere libertà e felicità senza alcun sostegno trascendentale/sovrannaturale. Questa sfida, e la modernità con essa, si sta dimostrando (si è dimostrata) fallace; pericolosamente. Sapienza della visione, sinestesia di parole-numeri-immagini, di immagini dei luoghi in cui passato e presente non distano ma sono un unico tempo, sempre di genitura originalmente avant-garde sui mondi anche di nuovi, questi nel presente ed ogni presente in futuro saranno con quello sguardo uno spazio di vita più che un tempo per restare in vita. Perché narrazione più che funzione, intensità più che misurazione sono vita. Perché ciò che viene visto con quello sguardo è ogni volta nuovo, quel che è costituito nuovo perpetua la sua novità. Lo sguardo che applicando l’attitudine al discernimento del pensiero critico, osteggia lo stato instaurato dalla connessione tra omologazione del consumo e uniformità del gusto, di cui il bifrontismo influencers-followers è un esempio. Lo fa evitando nella sua risposta il patetismo del declinare ogni cosa alla dimensione patologica e quindi terapeutica. Da cui un deviante concetto di ausilio. C’era il tempo in cui le agenzie di cura avevano un loro presidio nelle agenzie di formazione, le infermerie; e c’è il tempo in cui l’agenzia di formazione, nonché comunità educante, per antonomasia è divenuta presidio di cura invece che di prevenzione del malessere di fragilità di menti deboli e vulnerabili (l’ingresso della biblioteca sacra di Tebe in Egitto recava la scritta “Cura dell’anima”). Lo fa evitando le iperboli di manie ed isterie di massa di menti invasate, le retoriche dell’era iper-moderna, il delirio degli -ismi e le categorizzazioni indiscriminate (il discrimine, ciò per cui si ponderano le differenze proprio per evitare pregiudizi, è cardinale; con buona pace del conformismo poco innocentemente benpensante) che altrimenti indirizzerebbero ad abiurare alla scambievole natura di attore-spettatore propria dell’essere umano per consegnarlo al ruolo di ologramma di sé stesso, comparsa in uno spettacolo di comparse o protagonista dell’ingannevole solidarismo/condivisione, perché non di rado finto, dello stare uniti/vicini facendosi ombra l’un l’altro. L’esistenza può sostanzialmente essere intrapresa per due strade: Natura e Grazia. Se si va per la prima, bisogna tener in conto che quella ama fare a modo suo, piace averla vinta. Per l’altra, non c’è nulla di cui preoccuparsi veramente perché non ci si deve preoccupare di piacere agli altri, a tal punto che si è disposti persino d’essere oltraggiati. Non è poi forse stravagante che nell’epoca della tanto pubblicizzata (per assurdo attraverso un pensiero unico) predilezione per le diversità, in cui la difesa delle varietà è così strenua, si rilevi un’ampia presenza di omologazione almeno quanto l’inclinazione a stemperare la tanto vituperata identità (tanto che si arriva persino a metterne in discussione l’esistenza)? O che nell’era della divulgazione dell’immagine si riscontri una diffusa mancanza di cultura visuale con derivante povertà d’espressione?

Il sistema del Sapere ha senza dubbio conosciuto una sua riforma circa tre secoli fa.

Ora, come inevitabile conseguenza della sempre maggiore specializzazione, se ne presenta una sua rifondazione. Giambattista Vico esortava i giovani a non smarrirsi nell'arido universo dell'Algebra e delle Scienze matematiche. Depaupera la fantasia e fiacca la memoria. Coltivare arte e pensiero, dedicarsi alla Pittura e all'Architettura, allo studio delle lingue antiche e alla Poesia: tempo meglio speso. Considerazioni di un filosofo figlio dell’Età della Ragione! Volendo meno estremizzare, verrebbe oggi da dire "Pares cum paribus facillime congregantur”. Per un mondo in cui le cose poco importa che significhino, è bastevole che funzionino (esseri umani compresi). Secondo questa prospettiva la conoscenza (quella della cosiddetta “civiltà della conoscenza” che mette in luce quanto in realtà sia più difficile distinguere il vero dal verosimile che il vero dal falso) è quella utile ad un determinato scopo, quella strategica e selettiva, il cui sguardo anziché aprirsi alla pluralità si concentra invece sull’esercizio della propria competenza tralasciando il resto o meglio le correlazioni col resto. Sapere troppe cose non è necessariamente sinonimo di conoscenza, che invece mette ordine a quelle cose stabilendo quali siano quelle essenziali. Così come avere tutto, molto spesso ciò che non serve, a portata di mano (o meglio essere abituati a crederlo) non è conseguentemente analogo al progresso. Come dire più informati e meno consapevoli, vale a dire molto probabilmente un po’ più stupidi. Guarda caso la specializzazione (una conoscenza perfezionabile nell’ambito di determinati confini) nel sapere/fare è una competenza precipua delle macchine, piuttosto che l’autocoscienza dell’essere/esistere che è invece connaturata nell’Uomo. Forse è più conveniente collezionare attestati che coltivare una cultura? Ecco che alla cultura del sapere si sostituisce la perizia dell’esperto azzeccagarbugli di nozioni, procedure e magheggi (è poi ormai tutta questione di experience, per lo più però filtrata e mutuata dalle istruzioni del tutor/mentor/counselor/advisor di turno), nella società della conoscenza che invece di perseguirla promuove il “mercato della formazione” (infatti il suo destinatario è più che mai un cliente) che altro non è che la sua stessa immagine speculare: la promozione del mercato. Insomma, come si suol dire un gatto che si morde la coda. La trasmissione della conoscenza (servizio più che lavoro, funzione invece che professione; Platone e il suo “Simposio” sembrano essere infatti sempre più molto poco gettonati) implica non solo equilibrio tra le parti nello scambio ma il valore aggiunto della crescita personale e della cultura stessa che si moltiplica. Perché l’oggetto della conoscenza continua ad appartenere sia a chi lo trasmette che a chi lo riceve. La cultura del sapere traspare non tanto dalle librerie riprese come sfondo ai mezzo-busti ma si palesa in chi la coltiva e trasmette non essendo, quella, subordinata a titoli che la certifichino per legittimarla come tale: chi è colto e competente, e quindi pertinente a trasmettere conoscenza, non necessariamente lo è in virtù di titoli o per aver fatto il lacchè di qualche personaggio influente in merito, parimenti chi li possiede non necessariamente è colto in loro virtù; come in una condizione non sempre necessaria e comunque non sufficiente. Vero è che bisogna nondimeno considerare che la civiltà di Platone aveva una cultura dell’età che precede quella adulta che preparava corpo e spirito alla gioia di vivere e al rischio. Quel corpo che la scienza del Novecento, riabilitandone la nobiltà negatagli fin dall’Età di mezzo, ha dimostrato essere entità connaturata alla psiche. Da cui le derive degli eccessi, confondendo psiche e spirito, che lo vedono primatista nei confronti delle altre due entità. Complice una civiltà schizofrenica progress oriented, ignara che progresso è prendersi sulle spalle il proprio passato per traghettarlo, questo significa tradizione, oltre (come suggerisce l’iconografia di Enea-Anchise). La moda invece del bio- corre parallelamente alla corsa al bio-nico (applicazioni medicali escluse). Non cogliendone il paradosso nel chiedersi (o forse no perché magari generati da post-umani) cosa mai i posteri troveranno degli umani antenati, se congegni mecca-tronici o reliquie umane, cosa hanno pensato-detto-fatto (a software piacendo). Il mondo antico del corpo ne formò una concezione, non un’idolatria. Forma mentis specularmente contraria all’idea di totale controllo che oggi permea l’habitus odierno, che alleva nei recinti dell’istruzione curricolare e che, col meccanismo delle agevolazioni dei vari bonus arriva a fornire patenti a sapere sempre meno, il ricetto delle ricette come rifugio e scanso. Secondo un’omogeneizzazione che opera sotto le mentite spoglie della varietà di denominazioni nei vari gradi dell’istruzione. E per la parte complementare la bigotteria di palinsesti di pensiero e di prassi confinati nel perimetro della mera forma, tra i paletti della compilazione di moduli e le coccarde di attestati e master; che a differenza delle abilitazioni professionali (cui corrispondano i relativi albo e implicazioni), conseguite se comprovate da un esame-concorso e dall’esito dell’esercizio di un mestiere, vengono pagati. Nel mercato dei titoli a “pacchetti” comporta indubbiamente un rischio minore intraprendere un master, comprando nella banca dei “crediti” dei rassicuranti “kit di formazione” e mettendosi in coda per la riscossione della meritata agrément, piuttosto che coltivare l’agognato percorso acquisendo cultura e, invece di livellarsi nella comfort zone, spendersi nel salto nel buio che una professione intellettuale può essere per chi non è figlio d’arte o “socialmente introdotto” (il bello della precarietà è che ci si può permettere una certa dose di caos). Per non contare delle selezioni per percorsi il cui accesso è regolato dalle mere disponibilità di mercato (senza dilungarsi sui presupposti che vi sono sottesi) più che, restando ferme acclarate competenze, dalla capacità e disposizione ad affrontarli. Chi sa è riconosciuto tale non perché se ne verifica il contenuto quanto piuttosto perché se ne riconosce il contenitore. Ne è un chiaro esempio l’ipocrisia di chi già avendo riconosciuto merito in una persona tanto più se di specchiato excursus professionale, nel momento in cui constati, senza valutarne il percorso, non essere corredato da un titolo che la moda del tempo abbia ritenuto corrispondente, muta la propria postura in paludata posa nei confronti della medesima. Marginale però rispetto al preoccupante, e pure dannoso, di quanto diametralmente opposto. Imparare, fare, insegnare; il circolo virtuoso per trasmettere sapere. Far disertare nella consequenzialità il termine mediano, la cui mancanza rende assente il contributo della persona che trasmette vanificando così la trasmissione, costituisce fatalmente quello vizioso. Quell’ipocrisia però arriva ad essere persino ottusa (non ultima la supponenza del postulato nel ritenere di minor conto, da parte di chi è convinto di detenerne l’esclusività, le altrui competenze/esperienze maturate magari anche diversamente ma nello stesso ambito) quando poi i destinatari della trasmissione di quella conoscenza manifestano di averne tratto giovamento, e pure palesemente. Non parliamo della stravaganza di quel che pare non avere molto di dissimile da un foro boario, per cui abilitazioni nell’ambito di gradi superiori non pesano (non vengono fatte pesare) alcunché in capo alla medesima natura di prestazione nell’ambito di gradi inferiori. Quando poi le prime sono quelle per cui si certificano le seconde, non si sa se considerare tale assurdità più risibile o più diabolica. In uno scenario peraltro condizionato da una visione medicalizzante a riguardo della questione basata sulla cura e sul soccorso; ne soggiace un altrettanto condizionato, per tipo e per numero, accesso al quadro generale dei percorsi di certificazione alterato da quell’originaria condizione. Non è un caso poi che s’intendano le discipline umanistiche non affatto più principalmente quelle sui Classici, così foriere di vita, bensì quelle socio-psico-pedagogiche, così floride di classificazioni, teorie e considerate “scienze”. Se una società continua a esprimere sempre più soggetti particolarmente problematici, con evidenti sintomi in evidenti aree cognitivo-comportamentali, forse l’ipotesi “cura”, non essendo manifestamente efficace, non è quella più rispondente al bisogno.

In questo baillame non poteva che mancare un deus ex machina (che però, altra anomalia, è parte integrante del problema): l’intelligenza artificiale, o meglio la sua applicazione forzatamente presente ovunque e comunque all’uopo. Qualsivoglia design di successo è sempre stato quello che sa adattare la forma al contenuto (e non viceversa) per coniugare funzionalità ed estetica. Nessuno che si possa ritenere di buon senso (quand’anche non necessariamente parimenti di gusto) si lascerebbe attrarre da un'anfora cubica (anche se immagazzinabile con maggior successo); bensì da una a guisa di goccia, che del liquido è il primigenio elemento minimo immaginifico. Coerenza e rispondenza cui vengono sottratte largamente occasioni di manifestazione ad esempio nei contesti del Lavoro; così da preferire di fatto che le persone non vi impieghino le loro attitudini, abilità e competenze ma piuttosto che le pieghino alle richieste del Mercato, o in più ampia scala per quel che concerne un territorio a generare cultura ed economia secondo capacità che gli sono proprie. Nell'iper-mondo che tutto coniuga e declina prono alla categoria del mercato anche l'agenzia di formazione per antonomasia (da quel mondo molto appetita) non sfugge all'inesorabile avanzare della deminutio in corso d’opera, che spazia dalla soddisfazione del cliente nella categoria dell'azienda, al menù à la carte in quella del ristorante. Né è aliena, essendole complementare, al cupio dissolvi dell'omologazione, lubido maxuma del nostro tempo. Così per sviluppare ed incentivare il pensiero critico, questa la motivazione mediatica, s'impone di progettare per ogni area del Sapere “curvature” da adattare all'i.a. Senza distinzione di sorta, in un sistema incardinato sempre più sul metodo che sui contenuti, dove il binomio gettonato attività/competenze ha scalzato quello indefesso pensiero/educazione dal e al Bello (i più accreditati a garantire neutralità di giudizio e capacità critica). Per cui si porta a credere che esatto corrisponda a vero, che la rete corrisponda alla realtà (l’i.a. infatti elabora attingendo unicamente dalla prima), che sia più importante che una persona si preoccupi di ciò che può fare con un software piuttosto di preoccuparsi di ciò che quel software può fare di lei; che l'attenzione alla persona sia sinonimo di personalizzazione. Nel deficit culturale che ne consegue, chissà che l’onomatopea dello iato proverbiale diverrà quella geneticamente modificata di animali da soma addestrati, culturalmente depressi/deprimenti, parlanti all’unisono di “ ia-ia”? Credo poi (leggasi ne sono convinto, e sempre di più) che il punto non consista nel sapere sempre più di Matematica, Filosofia o più di una che dell'altra, bensì nel non farsi sfuggire l'occasione di rendersi conto del nesso tra le due e peraltro della sua attualità; tipica attitudine dei “classici” di considerare la conoscenza, con un quid olistico. Chi d'altronde potrebbe affermare, scientemente, che il dramma di Medea o il piglio risoluto di Lisistrata non siano quelle di persone viventi oggi? Quindi a che serve coltivare l’Arte, cosa ha a che fare con tutto ciò? Scriveva Marziale che ciò che abita dappertutto non abita in nessun posto. Non è “fit for purpose”, non serve a nulla perché a nulla è asservito, a niente di specifico perché molto giova a molto. Semplicemente e fondatamente è, lo sguardo sul Mondo. Questo lo sguardo che rende veramente liberi, non un’emancipazione che non fa altro che far assumere al soggetto che si emancipa le schiavitù proprie dell’oggetto da cui si è emancipato. Nessuno metterebbe in dubbio che nascere, vivere, morire sono caratteristiche della persona e quindi non necessariamente prerogativa di un culto particolare; ed è tanto vero se vi si pone il prefisso ri- e le si considera non necessariamente in questa sequenza. Un messaggio scandaloso però quello che parla di un passaggio dalla “morte” alla “vita”, oggi che più che mai si è ossessionati da quello dalla vita alla morte. Forse non perché si sia fedelmente dubbiosi quanto piuttosto poiché agnosticamente convinti. Questo messaggio sa ancora parlare al tempo in cui si crede che magari non proprio qualsiasi cosa sia ma in fondo un po’ tutto possa essere arte; in cui l’eterno è scalzato dall’evento, l’occasione di contemplazione viene rimpiazzata da quella di spettacolo, e non sia mai che i suoi spettatori non possano esserne divertiti (nell’accezione ludica del termine). Al tempo del divertimentificio globale delle aperi-cene vengono erette fabbriche del senso per raccogliere consenso, la spiritualità è dileggiata dallo spiritualismo scevro di trascendenza. Oranti poco elitari e molto democratici (più che altro in quanto a dichiarazioni), i fedeli di queste nuove cattedrali, professando un moralismo pauperistico (apoditticamente in contrasto col packaging lussuoso dei loro luoghi di culto), si affollano prodighi intorno al grande bluff del Contemporaneo che spesso riserva loro dietro l’angolo la mal celata “merda d’artista” che non mancano d’osannare con deferenza, il cui taglio sociologico e politico è funzionale alla nobilitazione di una nouvelle richesse affamata di cultura da saloni e salotti. Ma il nome di questi templi è quasi sempre affetto dal provincialismo munifico di acronimi, dal MAXXI al MACRO, al MART e al MAMBO, generati dalle pastoie delle commissioni urbanistiche, volano di oculati investimenti commerciali travestiti da operazioni culturali. Ora che più che mai si vuole con la vista toccare e che si tende a considerare vero tutto ciò che è reale (raramente viceversa), confondendo peraltro il primo col secondo. Quella sì opera d’Arte, parla a chi con la vista vuole guardare di uno scandalo che vede la ragione che misura dormire e quella che non ha misura vegliare oltre la mira di un orizzonte stravolto da qualcosa che gli è trascendente. Si fonda su un bene prezioso da non gettar via; qualcosa che altrimenti, ritrovaticene poveri una volta superato l’orizzonte degli eventi, non saremmo in grado di riacquistare. Una relazione insospettabile quella per cui la mancanza di coscienza, o in preda alla narcosi collettiva, limita l’immaginazione. Scriveva Orazio “ut pictura poesis”, la Pittura è come la Poesia. Questo corrisponde ai due modi di guardare o di leggere: lo sguardo da vicino rivela l’artificio, quello da lontano l’Arte. Le ideologie sono crollate, la Filosofia si dimostra ignorata e quindi non efficace per chi non l’ascolta ad orientare l’esistenza. Trionfano invece la dimensione fanatica/di massa delle religioni e le mode spiritualistiche, peculiare trend che connota le civiltà in decadenza. Si avverte la necessità di uno sguardo provvido, avido di trasparenza (ben diversa da quella che per esempio informa il rituale dell’“open day”), quello sguardo da lontano per colmare il vuoto di etica e di scienza del buon vivere per scolpire in sé i valori dell’eleganza d’animo e delle affinità elettive. La percezione di trucchi e trabocchetti nel reale e dell’extra-ordinario nell’immaginifico, quella di ciò che distrugge e ciò che costruisce, contrariamente a quanto sembrerebbe logico, passa per un impervio cammino diverso da quello razionale della dialettica e dell’universo basso-materiale della cultura bensì attiene a quello alto-simbolico, grazie al quale si accede per anguste porte ad un piano ontologico elevato: l'intuizione, categoria mentale della conoscenza, essenza del fatto estetico. L’intuizione che rifugge la regola. Coltivare beni che possono arricchire e difendere anziché arricchirsi di beni da difendere che possono inaridire. Colpiscono, questi due enunciati. Giovanni evangelista: “... io sono nel Padre e il Padre è in me ...”; Heidegger“... niente è se stesso e tutti sono gli uni tra gli altri ...”. Due moti: per il primo l’esistenza è ricca nell’interiorità, l’intimità è il modo d’essere del celeste; per il secondo l’esistenza si dissolve nell’esteriorità, un’anima conformata al terrestre. All’essere umano l’Arte fa un dono unico: permettergli di accedere, ogni volta che le sia a tu per tu, alla propria dimensione pristina. L’Arte è infatti “architettonica” perché produttrice dell’origine, lo spazio originario dell’uomo. È la storia di un’avventura in cui la ricerca dell’origine porta a scoprire che il vero principio del guardare al mondo è la meraviglia. Un principio per cui s’intuisce la differenza tra le verità semplici, in cui gli opposti sono tra loro assurdi, e quelle profonde, in cui ogni opposto è una verità. Chi s’interroga e prova stupore scopre d’essere ignorante; così, paradossalmente da filosofo, viene attratto dal mito perché questo è fatto di cose che destano meraviglia. Questo il meccanismo che desta l’amore di sapienza, più che conoscenza; ed è sempre stato lo stesso. Dati alla luce, nasciamo da un uovo (forma archetipica frequentatissima dalle espressioni artistiche, da Leonardo a Dalì, dall’Artemide di Efeso a Piero della Francesca, dall’architettura ionica all’Eden project), da un interno passiamo ad un esterno. E già ci si accorge che uscendo all’esterno si sta già entrando nel grande mondo. Non proprietari indipendenti ma tutti inquilini in mutua dipendenza. Chi si considera proprietario di una vita non può che considerare la vita, e qualsiasi vita, come una proprietà. Qualcosa quindi di cui sbarazzarsi nel caso questa costituisca un imbarazzo per chi detiene quel diritto di proprietà. Nel grande mondo: un altro uovo, un grande uovo, un altro interno; dettagli in un quadro, spettatori in uno spettacolo. Resta da portare all’origine allo sguardo di ognuno i “dati”, che sono stati organizzati in strutture per essere adatti a finalità; dati alla luce. E, come nel caso della Fotografia, possibilmente farlo con l’arte di lasciar perdere il dettaglio, senza lasciarsi intrappolare da quella di perdersi nel dettaglio. … Tanto più ci si avvicina ad una scultura più la si può toccare, la si conosce secondo il reale; quanto più ce ne si allontana più la si può guardare, la si conosce secondo il vero.

 
Venice lagoon