© diego mazzola
Cacciatore di immagini per passione e per diletto professore a contratto in “PROGETTAZIONE DI INTERVENTI URBANI E TERRITORIALI” nell’Istruzione terziaria, architetto “PIANIFICATORE, PAESAGGISTA E CONSERVATORE”, docente a contratto in “STORIA DELL’ARTE” nell’Istruzione secondaria di secondo grado.
Liberi nei confini o liberi dai confini? Le definizioni non mi incuriosiscono più di tanto, maggiormente mi attraggono le spiegazioni, ma ciò che mi interessa particolarmente sono le percezioni. Quelle per cui quel tanto che la mente meno conosce, tanto più tuttavia è in grado d’intuire. Ciò che non ha bisogno di spiegazioni; perché mai dovrebbe: è la modalità di ricerca di quel che rende umano l’essere umano. Partenza e arrivo di questa peregrinazione è la visione, quella per cui le immagini non si manifestano per mostrare qualcosa ma invitano a chiedersi cosa è possibile vedervisi. Argomento di particolare fascino fin dai tempi in cui le immagini non risiedevano nella sfera dell’Arte, l’Ottica prendeva parte nella Filosofia naturale, l’occhio e lo spirito erano nel cuore delle dispute filosofiche a contendersi il primato di mezzo speculativo per eccellenza. Il cui esito fu realizzare che “... pigliare occhi, per aver la mente, ...” era, ed è tuttora, la resa icastica di quella contesa. In effetti si potrebbe considerare l’Arte una prassi filosofica, la Filosofia una pratica artistica e la Fotografia un’esperienza estetica. Un cerchio che si chiude, a dimostrare che non esistono in realtà confini categorici nei territori poietici: i percorsi delineano gli spazi di chi li traccia. Ho praticato l’Architettura, quando non impegnato in docenze continuo a “coltivare il mio giardino” dedicandomi alla Fotografia. I confini, il catalogo con cui in particolare questa contemporaneità che predilige il prototipo all’archetipo (il seme che esiste anche quando al momento nulla germina), la lectio alla quaestio, di consueto dà il destro ad indagare la realtà, per vedere più dentro che oltre, sono labili. Così l’architetto utilizzando prestiti visivi e strumenti che gli insegnano a guardare incontra lungo un percorso, quello dello sguardo, il cacciatore di immagini; che lo avvia all’Arte come costruzione visiva e all’Immagine come visione costruita. Un cacciatore diventa tale quando da preda inizia ad inseguire il predatore; fuga e ricerca al contempo. Accadde già in e per un tempo lunghissimo: il divenire diuturno in cui la caverna si trasformò attraverso la sublimazione data dai segni, dati dei primordi. E proprio perché quel che è implicito nel segno è più profondo di tutti i significati espliciti, il tempo mitico si alterna a quello ciclico, il celeste si avvicenda al terrestre. Il necessario della scienza del dato, definito, definitivo ed escludente diventa il possibile della coscienza dell’indefinito, il limite muta in soglia e da territorio circoscritto diviene non circoscrivibile. Dove se vi sono nette distinzioni là sono provvisorie, dove se molto di ciò che esiste svanisce nell’invisibile ciò non significa che non accada; anche se è più conveniente e convenzionale pensarlo. Non resistere al canto della sirena fu davvero la strategia di sopravvivenza più efficace. Un canto che, precedendo di millenni le novità post-moderne, già poneva il conio di una metafora della vita quale realtà fluttuante, senza però disconoscerne le verità dell’esistenza (salvaguardando l’Uomo da tutto ciò che quel disconoscere avrebbe poi conseguito). Il mondo equòreo della dualità costitutiva dell’uomo, oscillante tra sapienza e conoscenza. Fu quello sguardo pontiere a divenire il mezzo che operò quel distacco, da preda a cacciatore, un allontanamento che permise a sua volta di guardare lontano e da lontano; causa ed effetto al contempo. Da qui avrebbe iniziato a considerare la sua relazione col suo intorno secondo vari scenari. Da autonomo, automa, autistico; sincronia, diacronia, o entrambe? Quell’ancestrale spazio liminare, la caverna, l’Uomo l’avrebbe poi chiamato mente. Un moto sorgivo e irrituale per cui il frutto del pensiero, la parola, crea le opere immanenti; creazione per cui i frutti di quelle trascendenti si rivelano. Non a caso dove parola e gesto possono trovarsi nell’unità, per cui pensare, scrivere, parlare è unanime e in un’unica lingua, quella non scritta, questo e quel percorso coincidono. Non per avventura quello dello sguardo sconfina nell’intuizione che rifugge la regola. …